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Il Drago e le Cinque Stelle

ISBN 9788868856861

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Storia, leggenda e fantasia: un'accurata commistione di tutto questo nel primo romanzo dell'autore Carlo Grilli.

Quello che si prevede essere il volume iniziale di una trilogia dal titolo I Santi Difensori racchiude la laboriosa ricerca di dati e fonti certi sulla storia medievale della "Perla dell'Adriatico" che sorge a ridosso del Monte Conero: Sirolo; il paese, che dà i natali all'autore, svolge nel romanzo un ruolo di assoluto protagonista, essendo il fulcro di tutta la vicenda.

La leggenda e la fantasia, da sempre vicine, sono gli altri due fattori costitutivi dell'opera, la quale rivela al lettore tutta la capacità di Grilli di evadere dal mero fatto storico per penetrare in un mondo parallelo, se così si può dire, creato da secoli dall'immaginazione dell'uomo.

Gli eventi frutto della fantasia che qui vengono narrati, appartengono ad un ricco insieme di mito profano e mito sacro: le due forze che si danno battaglia in questo primo volume, infatti, sembrano anche provenire da due differenti tradizioni leggendarie.

Il Drago e le Cinque Stelle, romanzo accostabile al genere fantasy, è un libro da leggere per gli appassionati dell'epoca medievale, per coloro che amano la tradizione del misterioso ordine Templare e per coloro che desiderano evadere dalla realtà per immergersi in un mondo dominato dalla leggenda e dalla fantasia.

 

                                                                                                                                                  Francesca Pirani

Un breve estratto del Libro I

Trama

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Un maligno e oscuro Signore si unisce con il suo esercito alle truppe di Federico Barbarossa che cingono d'assedio il fortificato castello di Sirolo. Padre Arturo, un ex Cavaliere Templare, Abate del convento in vetta al Monte Conero, percepisce l'oscura presenza e per proteggere l'arcana e potente reliquia che sotto la cripta della chiesa romanica del convento è custodita, certo che il tempo della battaglia con il demone è alle porte, chiede aiuto ai suoi fratelli d'armi: i Santi Difensori.
All'interno delle mura del maniero, un Cavaliere che non conosce il suo passato, decide di combattere a difesa dei sirolesi. Lì troverà l'amore, avrà le risposte alle sue domande e il segreto, celato dalla sua stirpe, gli verrà svelato.

Prologo

 

Nel controllato caos dell’immenso universo, l’Onnipotente, il Grande Architetto, creava nuvole di luce e nuove stelle.

Fra le moltitudini di queste Egli ne scelse cinque dopodiché, influendo nelle dinamiche celesti, deviò le loro traiettorie avvicinandole per poi, alla fine, farle scontrare.

Da quel lucente ed esplosivo ammasso d’energia, il Creatore forgiò il nuovo Angelo.

La neonata Divina Figura, ancora avvolta nell’azzurro e accecante bagliore, prese subito coscienza del suo mandato e ringraziò l’Eterno per averla generata.

Nella maestosa e materna luce del Paradiso, al cospetto degli Arcangeli e dei suoi fratelli Angeli, Ella fu presentata alle anime degli uomini miti e giusti che, chiamati a raccolta dall’Altissimo, la stavano aspettando per poterla ammirare.

Dio, in tutto il suo splendore, seduto sul trono circondato dal potente chiarore degli astri, con roboante voce, il nome di Lei comunicò.

L’Angelo con sembianze femminili, plasmato dalle cinque stelle, fu chiamato Siriele… e così tutti conobbero il suo nome.

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Anno Domini 560

 

il messaggero arrivò prima dell’alba, recava con sé un oggetto segreto, tanto arcano e prezioso che avrebbe potuto cambiare le sorti dell’imminente battaglia.

Lì nella piana dove l’esercito era accampato, numerosi bracieri donavano luce a ciò che rimaneva della morente notte, mettendo in evidenza un formicolare di militi che si stavano preparando allo scontro… finalmente lui era giunto alla meta.

Sicuro del dove andare, attraversando parte di quella tendopoli, egli indirizzò il sudato animale verso l’insegna designata e appena fu là, tirò le briglie del destriero che tra sbuffi e nitriti, scalpitando, si fermò. Con un agile balzo l’araldo scese da cavallo e senza indugiare, sotto gli occhi di fanti indaffarati, mosse il passo per varcare l’ingresso della tenda che ospitava il condottiero dagli occhi blu.

Sirio, il giovane ufficiale romano, all’interno del padiglione da campo a lui riservato, era già sveglio e abbigliato. Ora, assorto, egli attendeva che il suo servo, il quale lo aveva assistito nell’indossare la lucente armatura, gli porgesse l’elmo piumato quando, proveniente dall’esterno, un sordo rumore di zoccoli che battevano il suolo si udì. Il nobile soldato comprese che il cavallerizzo era alla porta così, onde evitare testimoni, congedò il fido servitore per rimanere da solo.

Sudicio e stremato dal lungo viaggio, lì sulla soglia del tendone, il messo fu subito fermato dai soldati di sentinella ma il centurione che comandava la guardia e di questi sapeva lo riconobbe; quindi, certo di non commettere errore, ordinò di lasciarlo passare. Appena entrato, al cospetto del superiore che con ansia lo stava aspettando, il messaggero, alzando il braccio destro e portando l’avambraccio con il pugno chiuso sul petto, militarmente salutò. Il giovane comandante della cavalleria, lieto di rivederlo, a lui si avvicinò e quel marziale saluto anch’egli ricambiò.

Rimanendo immobili, entrambi si osservarono incrociando i loro sguardi turchini: nei cuori erano felici ma non vi furono parole, nessuno dei due ruppe il silenzio. Poi il corriere mise mano alla borsa che aveva allacciata tra il collo e l’ascella, prese l’involto che conteneva l’arcano manufatto e lo porse all’alto graduato, lo guardò ancora negli occhi senza dire una sola parola dopodiché, lasciando trasparire un leggero sorriso, salutò di nuovo e da lì via se ne andò.

 

In quella fredda e umida mattina di novembre la densa nebbia che con il suo mantello aveva avvolto la vallata, ora si stava diradando. Un sole timido e pallido sorgeva dal mare donando i suoi primi raggi al silente paesaggio che, ricoperto di brina, a tratti brillava.

Le legioni erano pronte. Vario, Sirio e Falcone, i condottieri romani agli ordini del Generale Belisario, attendevano il segnale per sferrare l’attacco. Mentre questo aspettavano, i tre non potevano fare a meno di contemplare quell’immenso schieramento: ognuno era al suo posto. Gli arcieri erano allineati e i centurioni, posizionati davanti alle centurie, dopo aver dato le ultime istruzioni ai loro soldati, erano ansiosi di guidarli all’assalto: una furia offensiva si sarebbe abbattuta sull’orda nemica.

I Goti, mietendo morte e distruzione, avevano invaso i popoli italici da nord, perciò l’Impero Romano d’Oriente, in difesa di Roma, aveva mandato le sue armate per contrastare l’ostile avanzata che sembrava inarrestabile.

Il bizantino Belisario, abile e accorto, aveva scelto bene il campo di battaglia: il sole gli stava alle spalle, mentre l’esercito avversario, sito a ponente, lo avrebbe avuto in faccia. Egli guardava, dall’alto della collina, le sue truppe allineate, le vedeva in assetto: pronte a lanciarsi contro i temibili invasori. Il Generale aveva fiducia nei suoi tre ufficiali delegati a condurre l’attacco; tutto era stato pianificato, non c’era altro da fare, ora doveva solo attendere, confidare nel valore dei suoi soldati e sperare anche nella buona sorte.

Sirio, in testa ai suoi cavalieri, era al centro dello schieramento; seduto sul suo bianco destriero, cercava con lo sguardo colui che era il suo vero nemico: lo vide e mentre osservava quel titanico guerriero, sentì il battito del cuore aumentare d’intensità.

Nonostante fosse conscio del pericolo e dell’incerto esito del duello al quale stava andando incontro, egli non provava paura, sapeva cosa doveva fare; con sé, allacciato alla cintura, aveva l’antico oggetto, l’arma avuta poco prima dal messaggero: un pugnale, il “Sacro Pugnale”.

Le chierobaliste, le carrobaliste e le pesanti catapulte erano state tutte caricate, così come gli onagri e i terribili scorpioni dai quali, minacciose, lunghe frecce appuntite spuntavano. Una tempesta violenta e letale era pronta a cadere sulle truppe dei Goti che erano, di gran lunga, superiori di numero.

Belisario si voltò e constatò che il grande astro, poco sopra l’orizzonte, alle spalle delle sue legioni, aveva creato uno squarcio fra le nuvole e ora risplendeva incontrastato, irradiando con i suoi caldi raggi tutta la vallata. Il momento era propizio, il Generale Belisario, con voce sicura, diede l’ordine e subito il suo attendente sollevò lo stendardo d’assalto. Le trombe squillarono e le macchine da guerra riversarono sulle prime linee degli antagonisti dardi di ferro e palle di fuoco, gli arcieri scoccarono i loro strali oscurando quel maculato ma non più pallido cielo, così la morte, nel campo di battaglia, inesorabilmente, iniziò con la sua falce a mietere corpi.

La cavalleria romana, comandata da Sirio, avanzò al trotto di pari passo con la fanteria poi, di colpo, partì al galoppo e in quell’irruente corsa si aprì dividendosi in due tronconi: uno andò a destra e l’altro deviò a sinistra, onde attaccare contemporaneamente i fianchi del nemico.

Mancava poco all’impatto, balzo dopo balzo, affondando gli zoccoli nell’umido terreno cosparso di bassi cespugli e rovi verdastri, i fedeli cavalli, celeri e senza paura, spronati dai loro cavalieri, si avvicinavano alle linee avversarie che, pronte e minacciose, aspettavano di essere aggredite.

In quella galoppante forza d’urto Sirio, in testa ai suoi, reggeva l’ala destra; di fianco a lui cavalcava Oreste, il suo migliore arciere al quale aveva dato un preciso ordine: colpire l’equino dell’ufficiale goto. Alcuni metri a sinistra invece, quasi a contatto con Oreste, il giovane vessillifero di nome Flavio, mentre incitava il destriero ad andare, teneva alto lo stendardo: la Dea Minerva raffigurata su questo era l’emblema dello squadrone, ma per Sirio significava molto di più.

Il comandante dagli occhi turchini alzò lo sguardo in direzione del vessillo, focalizzò per un attimo la Dea dipinta nel drappo e capì che non sarebbe stato solo. Ancora un fosso con un piccolo ruscello da superare, una serie di arbusti nani da scavalcare e poi lo scontro con il nemico sarebbe stato inevitabile.

Guidati dagli impavidi conduttori e lanciati nella corsa a briglia sciolta, gli animali saltarono quello stretto fossato percorso dal rivo e subito dopo, con destrezza, quei fieri cavalli oltrepassarono le sommesse piante spinose sorvolandole con facilità… Un boato di guerra si udì.

L’impatto fu tremendo, il frastuono di scudi frantumati fu seguito dalle urla di dolore dei feriti e dei colpiti a morte; così come fu spaventosa e roboante la collisione della fanteria che, capeggiata da Falcone e Vario, si scontrò con la contraria armata aprendo un varco al centro dell’allineamento goto.

Nel momento in cui l’ala destra della cavalleria entrò in contatto con le forze ostili, Sirio, seguito da Oreste e Flavio, deviò verso il cuore dello schieramento avversario, là dove la battaglia era più cruenta. Lì nel mucchio, in quel groviglio di lance e spade che laceravano le carni, egli vide Darkul, il suo sinistro e terribile nemico che da cavallo, come una furia, stroncava vite con la sua grossa spada.

Il gigantesco guerriero intravide l’ufficiale romano e quasi ignorando la battaglia, sollevando il minaccioso acciaio, spronò il suo destriero verso questi. Sirio comprese che il momento tanto atteso era giunto. Velocemente lui ripose il gladio nel fodero e afferrò il Sacro Pugnale, mentre Oreste, ancora al suo fianco, scoccò la freccia: l’equino del tetro condottiero goto venne colpito alla gola e stramazzò al suolo, facendo rotolare a terra l’oscuro cavaliere. Il giovane comandante romano, tenendo stretta nella sua mano destra la Santa Lama, cavalcando accovacciato con i piedi sul dorso del suo stallone, nel momento in cui fu vicinissimo al nero antagonista, si lanciò dall’animale su di esso: gli rovinò sopra e con tutta la forza che aveva, guardando negli occhi lo spietato avversario, colpì forte al torace… fu un attimo, l’arcaico coltello penetrò la robusta corazza e si conficcò nel petto di Darkul.

Il nefasto Capitano goto rimase per un attimo come paralizzato poi, con tutto il vigore che aveva, provò a togliersi lo stiletto che il romano, spingendo con entrambe le sue forti braccia, teneva ben saldo nel torace del bieco assassino. In quell’interminabile istante, Sirio capì che doveva finirlo, così staccò la mano dall’elsa del Sacro Pugnale per afferrare la sua spada ma questa, nel salto da cavallo, era caduta dal fodero conficcandosi nel terreno a pochi metri da lui. Flavio tutto questo notò e verso il suo superiore si precipitò; senza scendere dal destriero, al galoppo e aggrappato alla criniera del suo animale, chinandosi raccolse in corsa il brando del suo comandante e glielo lanciò. Il giovane condottiero dagli occhi blu afferrò al volo l’impugnatura della spada, si alzò in piedi di scatto e caricando il braccio per sferrare il colpo fatale, freddo e risoluto, esclamò:

«Non per odio né per vendetta ma per giustizia, io pongo fine alle tue malvagità».

La lama si abbatté, sibilando sul collo del nemico e recidendone la testa… Darkul, il “mostro”, era stato ucciso

 

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Anno Domini 1194 - La storia

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In un tiepido e ventilato pomeriggio di giugno, qualche ora prima che il sole tramontasse, un padre, con accanto sua moglie, seduto su una lastra di bianco granito appoggiata su due grosse pietre e posta all’ombra di un grande olivo nel centro di un oliveto, si accingeva a parlare ai suoi quattro figli, due maschi e due femmine, seduti in terra al suo cospetto.

Davanti a lui, alla fine del campo alberato, dietro cespugli di ginestre, il blu dell’Adriatico incontrava l’azzurro cielo senza nuvole mentre, alle sue spalle, il giallo oro di un campo di grano, maculato qua e là dal rosso dei papaveri, tracciava un confine di colore con il verde scuro del bosco che si arrampicava sulla bassa montagna. In quel sito rupestre affacciato al marino una brezza leggera spirava, era il maestrale: gentile soffiava e le tante fronde delle piante argentate accarezzava.

L’uomo, come se volesse assaporare quel momento, socchiuse gli occhi e fece un gran respiro dopodiché, con cortese ma profonda voce, iniziò a parlare:

«Ho il dovere e l’onore, figli miei, di narrarvi questa mia storia.

Tutto iniziò ventidue anni fa…

La prua fendeva le onde facendo luccicare l’acqua che i legni lambiva; l’alba era alle porte: a breve, da oriente, la luce del giorno avrebbe vinto, ancora, l’eterna battaglia contro le tenebre.

La costa non era molto lontana, intravedevo il profilo del Monte Conero che, solitario, si elevava davanti a me. Il mare era calmo e la piccola nave, per mezzo della sua bianca vela, incedeva veloce e silenziosa, sospinta da un leggero vento di poppa che rendeva piacevole la navigazione.

Un nuovo mattino bussava alle porte del mondo. Il sole alle mie spalle, colorando il cielo di un rosa pallido che presto sarebbe diventato arancione, iniziò a sorgere e il suo lieve calore mi avvolse in un tiepido abbraccio accarezzandomi le braccia nude.

In questo maestoso e quieto salmastro che brillava sotto la luce dell’aurora, io, Ermete Degli Angeli, Cavaliere e Signore di una piccola terra sulla costa della Dalmazia, stavo navigando in compagnia di Odone, il nocchiero, verso la Spiaggia delle Velare, là dove si ergevano scogli chiamati Due Sorelle. Ero salito a bordo da un piccolo pontile in legno sito sull’arenile di Humana, cittadina limitrofa al Castello di Sirolo, quando la nottata era assai fonda.

Odone era partito giorni prima dalla Terra Santa, aveva sul volto i segni della stanchezza: poche ore era riuscito a dormire. Racchiusa in un fodero di pelle chiara, a sua volta avvolto da un telo purpureo con un bianco cordone che il tutto cingeva, egli recava con sé una cosa che avrebbe dovuto consegnarmi.

Vi erano state giornate di cruenta battaglia sulle mura del maniero sirolese, poi il nemico si era ritirato ma, purtroppo, ancora non era stata scritta la parola fine.

Lì nel pontile, dal chiarore di quattro torce illuminato, mentre stavo aspettando l’arrivo di Odone, mi trovavo in compagnia di alcuni Cavalieri che a me si erano uniti per proteggermi. Uno di questi scrutò, nel buio della notte, il lumeggiare fioco di una lanterna tra le onde, allora fece cenno con una fiaccola e subito dopo l’imbarcazione arrivò. Il natante approdò; salutai gli uomini d’armi congedandomi da loro e mi preparai ad abbandonare il lido. Odone mi aiutò a salire a bordo e, appena misi i piedi sui legni, mi consegnò l’oggetto fasciato dal panno rosso dopodiché, armeggiando nuovamente la vela e invitandomi a dargli una mano con le cime, riprese il navigare.

Come gli era stato ordinato, egli diresse la prua verso sud est poi, dopo circa una mezz’ora, quando ormai eravamo in alto mare, cambiò repentinamente rotta puntando a nord ovest per tornare indietro.

Avevo, insieme ai miei compagni, un terribile nemico da combattere; il piano doveva essere eseguito alla lettera, non si poteva trascurare nulla: i servi del Drago dovevano pensare che stavo ripiegando rinunciando alla battaglia.

Il mio avversario non era un comune mortale, egli era un demone guerriero: un mostro assetato di sangue. Rimanevano solo due giorni interi davanti a me, il pallido plenilunio del solstizio d’estate era vicino. Due giorni e due notti ancora per scovarlo e ucciderlo; non potevo fallire, dovevamo evitare che compisse la sua macabra e sanguinaria cerimonia ma, soprattutto, dovevamo impedire che distruggesse la Santa Reliquia, altrimenti il “Signore del Drago”, con l’arrivo della nuova luna, sarebbe diventato invincibile.

Tutto era iniziato una settimana prima; il Castello dei Conti Cortesi nel Feudo di Sirolo, per ordine dell’Imperatore Federico I, chiamato dai più Barbarossa, era stato attaccato dal suo Luogotenente, l’Arcivescovo Cristiano di Magonza che, a sua volta, con l’aiuto della Repubblica Marinara di Venezia, sempre su comando dell’Impero, da mesi teneva sotto assedio la città ribelle di Ancona la quale, da tempi remoti, era detta anche Dorica.

Al seguito del Barbarossa, un nobile venuto dai Carpazi di nome Vlader che sullo scudo esibiva l’immagine di un drago, con le sue truppe si era unito all’Esercito Imperiale. Si diceva di lui che non combattesse né per denaro o gloria ma per il solo piacere di uccidere e torturare sino alla morte i prigionieri. Il Signore del Drago, il Principe Vlader, sarebbe diventato il mio acerrimo antagonista.

Fino a pochi giorni prima non avevo coscienza di chi io realmente fossi e non conoscevo ancora l’uomo che stava maturando dentro di me: non avrei mai potuto pensare che quella fatale e brutale circostanza avrebbe radicalmente cambiato la mia vita.

Il prendere terra nel Lido di Sirolo, là dove vi era una grotta, ci era stato sconsigliato poiché l’arenile era sorvegliato dal nemico: nessuno doveva notarmi. Si era quindi deciso di farmi approdare alla Spiaggia delle Velare che era situata più a settentrione. Da lì poi, proseguendo da solo, sarei asceso sino alla sommità del Monte Conero percorrendo l’impervio e irto Sentiero dell’Altare. Una volta su in cima, superato il piccolo Chiostro di San Benedetto immerso nella macchia, sarei salito all’Eremo di San Pietro solcando il Passo del Lupo: Padre Arturo, ex Paladino Templare, mi stava aspettando. Avermi a concilio era suo desiderio ed egli, il tutto, aveva organizzato.

Quando ero ancora un bambino, dopo la prematura morte dei miei genitori, lui, all’epoca valoroso soldato del Tempio, mi aveva preso con sé.  Nelle vesti di genitore e tutore, tra i tanti insegnamenti elargiti, questo nobile uomo mi aveva anche addestrato al combattimento e all’uso delle armi. Negli anni della mia fanciullezza lo avevo servito come scudiero ed era per merito suo se ero diventato anch’io un Cavaliere.

Ora la costa era vicinissima; vedevo, dinnanzi a me, la bianca falesia del Conero e riuscivo a scorgere bene ciò che i pescatori del luogo chiamavano Libri. Erano, questi, lastroni di pietra che dalle onde emergevano e si adagiavano, uno sull’altro, alla parete della montagna come fossero volumi posti su di uno scaffale. Poco più a sud invece, distinguevo i massi color rosa della spiaggia detta Sassi Neri dove, a pochi metri dalla battigia, numerosi scogli scuri affioravano dall’acqua.

La tenue luce dell’aurora, là nel piccolo e ciottoloso lido, tingeva ancor più la roccia calcarea che il mare lambiva: sembrava un incanto, un paesaggio da fiaba… Era stato lì che, in un caldo pomeriggio d’estate, l’avevo incontrata per la prima volta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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