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Le Montagne delle Fate

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ISBN 9788826440651

Quando incontrai Carlo Grilli, che aveva appena terminato la stesura di questo libro, mi disse che in realtà solo qualche mese prima stava lavorando ad un altro soggetto – quello che l’autore stesso annuncia nell’epilogo,intitolato La Fanciulla delle Stelle, e che presenta come il Libro V de I Santi Difensori – ma che, in seguito alla notizia del 24 agosto 2016, la quale ricordava per l’ennesima volta al nostro Paese come esso sia fragile e imprevedibile, si sia immediatamente rivolto ad un altro progetto.

Il tema non si discosta molto da quello già affrontato nei tre libri precedenti, ma ciò che l’autore ha dedicato alla gente terremotata dell’Appennino umbro-marchigiano è proprio l’ambientazione della storia: quelle montagne così inospitali e al tempo stesso ad essa tanto care.

Il Monte Vettore, le Gole dell’Infernaccio, il Lago di Pilato e il piccolo paese di Elcito sono i luoghi dove l’autore ha collocato l’ultimo scontro tra Bene e Male; la magia è presente anche questa volta ma, con assoluta novità nella saga di Grilli, è rappresentata dal mondo delle fate.

L’autore ha preso spunto dalla leggenda popolare che si narra sul Monte Vettore per dare corpo al personaggio centrale della veggente Sibilla e all’insieme delle fate che con essa vive in una grotta all’interno della montagna; l’elemento favolistico contribuisce a dare ampio respiro alla storia, poiché alleggerisce la narrazione creando pause distese e romantiche al corso degli eventi. 

La collocazione storica, sempre di stampo medievale, presenta come ovvia la scelta dell’eremo di San Leonardo – nel testo rinominato Castrum de Volubrio – per l’ambientazione della battaglia finale.

Purtroppo Grilli si è trovato a lavorare a questo libro durante una sequenza sismica che ha interessato il Centro Italia anche nei mesi successivi a quel primo violento episodio di agosto e, a ragione, posso dire che quell’eterna lotta tra Bene e Male che qui ha descritto non è poi tanto diversa da quella che le popolazioni dell’Italia centrale combattono con caparbietà con la loro terra.

 

                                                                                     Francesca Pirani

 

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Trama

 

“Vedo, sento e prevedo, tutto posso con l’antica e potente magia e nel sortilegio io credo.
L’alfa e l’omega io sono su queste montagne e da tempi remoti nel ventre di esse io vivo”.
Con queste parole, all’interno della caverna da cui si accede al regno segreto e fatato, si presenta la Maga Sibilla ad Arsenio e Fedora che con un pastorello di nome Mattia, fungente da guida, dalla veggente si recano per avere aiuto e consulto; la guerra incombe e i loro compagni rintanati al Castrum de Volubrio, sopra le Gole dell’Infernaccio, sono in serio pericolo: un bieco Capitano di ventura denominato Mostro, assoldato da un sinistro castellano, passa a ferro e fuoco tutte le rocche che si trovano sotto quelle vette e la Maga dovrà decidere se allearsi con i Santi Difensori o restare a guardare.
Alcina, questo è il vero nome della Sibilla, alla fine decide di unirsi ai paladini dell’Angelo, perché già sa che loro le porteranno colui che da secoli attende: un guardiano per quelle cime, il protettore del reame incantato e di tutte le sue fate che lì con lei vivono celate, una potente creatura il cui nome è Spada di Zanna.   

Cenni storici e note dell'autore

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Avevo da poco tempo, un po’ svogliatamente dato che non trovavo ispirazione, iniziato a scrivere il libro IV della saga e così, pigro e negligente mi trastullavo quando, purtroppo, si è verificata quella tremenda scossa di terremoto che il 24 Agosto del 2016, come ben sapete, ha portato distruzione e lutto nell’Italia centrale.
In quanto appassionato di montagna ed essendo i Monti Sibillini abbastanza vicini a Sirolo, paese dove vivo, sovente sono stato su quelle montagne, che a mio avviso hanno un fascino tutto particolare; così ho deciso, per dedicarlo a tutta quella coraggiosa e fiera gente colpita dalla disgrazia e dal lutto, di creare un romanzo ambientato in quei meravigliosi luoghi.
Molte di quelle vette, faticose da raggiungere per la mia non più verde età (ma non impossibili), hanno da sempre su di me un forte richiamo: unite tra loro da creste ondulate e percorribili, sono, una volta che sei su di esse, una deliziosa ventata di allegrezza, un vero toccasana per lo spirito; alla fine della scalata, il premio è ineguagliabile, non ha prezzo, tanta è la magnificenza del contemplare quando si allunga lo sguardo verso le altre cime e le verdi vallate. 
Il Monte Vettore, con il suo Lago di Pilato, è uno di quei luoghi che più di altri mi fanno sognare, così come la vetta della Sibilla, dove in una grotta proprio sotto la sommità, si pensa si celasse e vivesse la Regina Alcina, la mitica maga e veggente detta Sibilla, da cui prende il nome la catena montuosa; ella, così enuncia la tradizione, dimorava là con le sue magiche ancelle chiamate “fate”, che avevano al posto dei piedi zoccoli di capra.
Come la leggenda racconta, Alcina, che non era affatto buona né priva di peccato, era stata relegata dal Creatore a vivere nelle viscere della terra, per la quale suddetta spelonca si accedeva; ella infatti, sfrontatamente rivolta all’Onnipotente, aveva avuto la presunzione e la pretesa di diventare la madre del Cristo e perciò, era stata condannata a vivere in quell’oscuro sito, da cui non avrebbe potuto più riemergere: per sua sola colpa il mondo dei vivi le era stato per sempre negato.
Le ancelle invece, descritte come leggiadre e seducenti donne in età giovanile, abbigliate con lunghe vesti per nascondere le loro zampe caprine, di sovente, durante la notte uscivano dalla caverna e girovagavano tra il Lago di Pilato e i borghi di Montemonaco, Foce, Montegallo, Castelluccio di Norcia e Pretare, cercando contatti con i ragazzotti del luogo, con i quali spesso danzavano, seducendo alla fine del ballo i poveri malcapitati che, inebriati dalla loro bellezza, le seguivano sino all’antro per poi non fare più ritorno.  
Il libro IV, che stancamente stentava nel procedere, doveva essere intitolato “La Fanciulla delle Stelle”, ma dopo quel disastroso evento e tutte le altre scosse telluriche che si sono poi avvicendate, sentendo il dovere morale e la necessità di dare un apporto a quelle sfortunate popolazioni, ho deciso di cambiare rotta e di scrivere una storia che si svolgesse su quelle cime.
Adesso non dovevo fare altro che trovare un giusto sito dove ambientare una possibile battaglia finale e la scelta è stata doverosa: l’Eremo di San Leonardo.
Così, dopo aver optato per quel piccolo e solitario monastero, che nell’epoca in cui ho adattato la vicenda era abitato e servito da un Priore e sei monaci Benedettini, è nato e ha preso immediatamente forma questo mio nuovo racconto che ho intitolato ”Le Montagne delle Fate”.
In questa novella, che tratta di magiche creature, un poco e con gioia sono tornato bambino, ripensando alle tante fiabe che dai miei genitori avevo ascoltato e mi è stato assai lieto il narrare: mi sono quasi divertito.
Con il pensiero ho rivisto tutti quei magnifici e incantati luoghi che per me sono come fatati, impregnati di magia e in essi, facendo un salto indietro nel tempo, mi sono mentalmente rituffato, unendo a quei mirabili posti anche l’affascinante piccolo borgo di Elcito, detto “il Tibet delle Marche”, che si trova in provincia di Macerata e non è troppo lontano dal Monte Vettore.
Nella storia che vi apprestate a leggere, io parlo del Lago del Diavolo, perché questo nel medioevo era il nome che veniva dato al Lago di Pilato, mentre il Castrum de Volubrio altro non è che il monastero ora denominato Eremo San Leonardo che si trova sopra le irte e suggestive Gole dell’Infernaccio.
In itinere, poi, ho letto un articolo su una ricerca condotta dalla Dottoressa Giuliana Poli, riguardante sette chiese dei Monti Sibillini, alle quali lei da risalto e mette in luce nel suo libro “L’Antro della Sibilla e le sue Sette Sorelle”; questi santi rifugi di silenzio e preghiera sembra siano stati edificati tra quelle montagne in punti ben precisi, come se volessero rappresentare le stelle della costellazione della Vergine così come sono poste in cielo: questa notizia mi ha dato altra linfa e mi ha fatto arricchire il racconto con personaggi che all’inizio avevo deciso di non portare nel viaggio.
Nella speranza che la lettura di questa mia nuova opera possa anche a voi regalare un fiabesco momento ricco d’antichi sapori, non mi resta che auguravi un felice volare sulle ali dorate della fantasia.
 

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«Vedo, sento e prevedo, tutto posso con l’antica e potente magia e nel sortilegio io credo.
L’alfa e l’omega io sono su queste montagne e da tempi remoti nel ventre di esse io vivo.
Immenso potere mi è stato concesso, ma il mondo di fuori, per mia sola colpa, a me è stato negato; io sono colei che scruta nel fato...

Un breve estratto del Libro IV

Prologo


Dal Vangelo segreto dei Santi difensori

“La Profezia del Nuovo Guardiano”

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Prepararvi allo scontro finale io devo: il Maligno da sette lame incantate e dal Sacro Pugnale trafitto sarà… e voi, Sacri Guerrieri che da me discendete, questo farete.
Accadrà un dì, nei giorni di gelo dei tempi a venire, che dalle aspre montagne, una nuova creatura dal morso del lupo nascerà.
Nel bene e dal bene la sua mente sarà forgiata e con vigore, la di lui vita allungata.
La cinica voce di colei che ha l’occhio nel fato, possente e imperiosa si manifesterà e un’equa richiesta alle angeliche spade, come obolo chiederà, perché da morte certa un mio figlio lei strapperà.
Al suo oracolo, l’Immortale peloso parole assai amare dovrà sentire, dolorosa partita per il suo aiuto la Maga vorrà: un giovane Lupo per farne suo difensore, ella in cambio vi chiederà.
Il sangue che m’appartiene, per mia volontà e desiderio, tenzone con essa non voglio che abbia.
Nessuna lama o azione di forza verso colei che scruta il futuro, ma atto di fede e d’amore, per farla amica e alleata… questo è il mio auspicio e questo avverrà.
E sarà quella potente creatura un nuovo guardiano e il suo nome  “Spada di Zanna”.

 

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La Narratrice

 

 

Alito, soffio o turbine per me non fa alcuna differenza… l’afferro al volo e mi lascio trasportare.
L’amico vento da sempre io cavalco e nelle sue pieghe, celata ai vostri occhi, rapida viaggio e mi nascondo.
Lì, nella brezza che mi solleva e mi sospinge in alto, come cento bandiere ondeggiano leggeri i miei corvini veli e con sibilo, fendendo l’aria, vibra l’argentata falce.
Tale all’aquila reale, da sopra distaccata scruto il mondo, guardo la meraviglia del creato e vedo il suo caotico ma magnifico pulsare: terre, mari e fiumi sempre in movimento, sempre alla ricerca di un labile equilibrio… così come la vita.
Nella maestosità di tutto ciò che dall’Onnipotente è stato plasmato, per farne dono a voi, miseri mortali, la bellezza della vostra casa io compiaciuta osservo.
Adoro mirare il blu delle acque tempestose infrangersi sulle spiagge, così come i colori tenui della dolce primavera, o il bianco delle cime ardite, che irte e irraggiungibili coronano le valli: ma se c’è una cosa che più d’ogni altra io amo contemplare, sono quei brulli monti del suolo italico centrale che, tra l’Adriatico e il Tirreno mare, si ergono ondulati e che dalle genti del luogo “Sibillini” vengono chiamati. 
A prima vista potrebbero sembrare vette come tante altre, candide d’inverno e spoglie d’estate, ma sorvolandole durante i soleggiati mesi, non posso fare a meno di lodarle e di farne, tra tutte, le mie da sempre preferite.  
Quanto silenzio e quanta solitudine in questa verde immensità e quanta luce, quando il sole della calda stagione irradia e riscalda queste montagne… ma quanta asperità.
Il bianco gregge sale sino ai cocuzzoli, dove erba è più fresca e tenera e l’abbaiar del cane, seguito al fischio del giovane pastore, echeggia dalle creste giù sino alle valli, come volesse dire: «Taci e ascolta, sei nel nulla… non sei nulla! Ammira e godi».
Qui, in questo fiabesco luogo, dove acqua fresca e cristallina sgorga perenne dal pietroso suolo delle alture e nei torrenti, gorgogliando tra sassi e massi inizia la sua corsa verso il mare, mandrie e greggi beatamente brucano al fianco di caprai e contadini e di altra gente fiera e schietta che vive lavorando giù nelle valli; ma a volte, ahimè, questa solenne pace viene stravolta: la terra trema e porta rovina; così io spesso vengo a mieter vite in questi luoghi e degli umani odo lamenti e pianti.
Adesso, miei fidi lettori, non è di morte o lacrime che io voglio parlarvi, né tantomeno di me, che sono sempre io, colei che voi temete ed evitate, ma che inesorabilmente prima o poi incontrerete.
Ancora una volta spetta a me narrarvi questa segreta storia e per far ciò è bene che io riprenda il racconto da dove un dì eravamo rimasti.
Se ben ricordo, Fedora, colei che dal nemico era temuta e chiamata Medusa, per ordine di Lucia detta La Temeraria, Capo Guerriero dei Santi Difensori, aveva ricevuto dal Principe Vlad, il Dracul, per mezzo del suo morso, il dono della lunga vita; questo però non le aveva impedito di continuare ad amare Filiberto, il giovane guerriero della confraternita, e mentre il Signore del Drago, con sua moglie Sofia La Bella, era tornato in Transilvania, portando con sé la piccola Tea allo scopo di proteggerla e nasconderla dalle forze del Male, poiché predestinata a diventare un Angelo e governare il futuro mondo, Arsenio, l’ex Cavaliere Templare, il monaco, il lupo mannaro che viveva nell’Eremo in vetta al Monte Conero, era stato chiamato a rapporto nel convento di Santo Spirito e con lui era stata convocata anche la bionda Fedora e il suo amato Filiberto.
Qualcosa di sinistro si era manifestato: un malvagio Signore aveva dato mandato a un efferato personaggio denominato “il Mostro”, di attaccare i piccoli castelli che si trovavano sotto le montagne; questo crudele e spietato Capitano di ventura, che comandava un folto gruppo di sgherri dediti all’assassinio e alla rapina, senza pietà trucidava chiunque gli si presentasse davanti e non pago, una volta sgominata ed espugnata la rocca nemica, continuava la sua opera di morte e distruzione riversandosi sui borghi limitrofi alle cittadelle conquistate, compiendo razzie e saccheggiando, passando per spada chiunque si opponesse ai suoi voleri: bisognava portare un freno a quelle scorribande: il Mostro e il suo misterioso mandante dovevano essere uccisi.
In breve una sparuta pattuglia di Cavalieri dell’Angelo aveva lasciato le segrete mura e percorrendo i sentieri che portavano a nord, si era messa in marcia per raggiungere i villaggi posti sotto il Monte Vettore, per far fronte e mettere fine alle nefandezze del maligno condottiero; questa era però solamente la prima delle battaglie che i Sacri Guerrieri avrebbero dovuto affrontare: un'altra, molto più cruenta, si sarebbe manifestata e combattuta nei secoli a venire e per riuscire a vincere era necessario l’aiuto di un’enigmatica figura, una misteriosa maga che aveva il potere di scrutare il futuro…  era la notte antecedente il solstizio d’inverno nell’anno del Signore 1209…

 

 

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La montagna delle fate

 


Lassù, lontano dal mondo abitato, tra le innevate e desolate rocce delle appenniniche cime, un pallido sole velato se ne stava andando a dormire, mentre sparuti bianchi fiocchi, lievi e silenti, fluttuando nella gelida aria di quel precoce crepuscolo invernale, scendendo lentamente si posavano sul brullo suolo e in quel maestoso e solitario luogo, sovente battuto dal vento, il silenzio ora nuovamente regnava.
 Nuvole grigie e cariche di neve, sospinte da una brezza fredda e leggera, accarezzavano le alte vette che, sovrastate da quella bigia volta, ignare e distaccate, avevano assistito alla violenta battaglia.
Là, sotto la montagna, nella conca dove si trovava il piccolo lago ghiacciato, il cruento scontro era da poco terminato, ma il Mostro non era stato ucciso: il suo corpo non figurava tra i cadaveri al suolo; le informazioni ricevute erano sbagliate: il malvagio Capitano di ventura non era in quel luogo o, forse, aveva intuito il tranello e si era dileguato prima che il pugnare avesse avuto inizio.
Nessun sorriso si scorgeva sui volti degli angelici paladini né tantomeno si alzavano al cielo roboanti grida di vittoria: una pesante tristezza aleggiava e un pensiero nefasto sembrava imperare.
Un giovane Cavaliere, attorniato da tutti i suoi compagni guerrieri, con la veste maculata del suo vermiglio e vitale liquido giaceva inerme sul manto nevoso. 
«Destati, amore mio! Ti prego, svegliati! Mio Dio! Che cosa abbiamo fatto? L’abbiamo ucciso?», disse la bella e bionda ragazza con le labbra sporche del sangue di lui, tenendo fra le sue mani il capo dell’amato che non dava segni di vita.
«No, è ancora vivo, il suo cuore non ha cessato di battere, è come se stesse dormendo; siamo riusciti a salvarlo da morte certa ma non è andata come avremmo voluto, ci siamo illusi di avere il potere, ma noi non siamo come il Signore del Drago: egli è l’unico che può donare la lunga vita.
Non potevamo che osare, il Dracul non era qui e non c’era tempo da perdere: ciò che hai fatto lo ha strappato alla morte; ora dobbiamo risalire per riprendere i cavalli, trovare un riparo prima che il buio giunga e accendere un fuoco per riscaldare il suo corpo… io so dove andare, il ragazzo mi ha detto che c’è una piccola cavità appena sotto la cima, non è grande ma sarà sufficiente per proteggerci dal gelido vento notturno e la legna che il fanciullo pastore ha raccolto giù a valle prima della battaglia sarà sufficiente per passare la notte, poi alle prime luci dell’alba ci rimetteremo in marcia per le Gole dell’Infernaccio, dov’è situato il Castrum de Volubrio e là, nell’eremo, ci uniremo agli altri compagni, ci rifocilleremo e faremo rapporto al Capo Guerriero», disse l’uomo dai capelli grigi e dalla folta barba bianca che comandava la pattuglia, mentre si caricava quel giovane ferito sulle proprie spalle; così tutti, velocemente, raccolsero scudi e lame e, avvolgendosi dentro i pesanti mantelli, si accodarono al loro superiore, che con passo spedito e sicuro, noncurante del peso che portava, iniziò a salire il costone di roccia ascendente verso la vetta della montagna e dall’alto di quel sentiero per capre, che irto s’arrampicava sulla pietraia innevata, tutti si voltarono indietro puntando lo sguardo al laghetto, dove i corpi senza vita dei nemici giacevano inermi sulle sponde e sulla battigia di quel minuto specchio d’acqua ghiacciato, che a causa di tutto quel sangue versato si stava tingendo di rosa e che la gente dei borghi del luogo, da sempre, soleva chiamare Lago del Diavolo.

Mattia, il pastorello che da quei cavalieri crociati era stato ingaggiato come guida e portatore, da quella posizione elevata in cui si trovava con i suoi due muli e tutti i destrieri degli armigeri, aveva osservato con il cuore in gola lo svolgersi della battaglia e nel vedere quei valorosi sconfiggere gli avversari si era rincuorato; ma là a ponente, dietro le bianche vette, quel pallido sole stava tramontando: presto sarebbe stato buio e in quel luogo egli temeva assai l’oscurità.
Troppe storie il ragazzo aveva sentito narrare dalle persone anziane del borgo: racconti di esseri magici e a volte anche maligni che popolavano quelle montagne, fate cattive e fastidiose che durante la notte scendevano dalle cime circostanti per danzare con il Diavolo davanti al laghetto, mentre altre più avventurose si spingevano sino a valle per rubare i cavalli dalle stalle e per ballare con i giovani dei villaggi, che conquistati dalla loro bellezza, venivano di sovente sedotti; così, inebriati d’amore, prima che l’alba giungesse, i miseri malcapitati seguivano quelle leggiadre e suadenti creature sino all’interno di una buia grotta, dalla quale, ahimè, mai più uscivano.
Forse erano solo leggende, o forse era la pura verità; di certo, fate o streghe lui non ne aveva mai viste, ma più volte al tramonto, durante l’estate appena trascorsa, mentre con il suo gregge ritornava all’ovile, aveva udito dei suoni e strane voci cantare e a quelle sconosciute melodie vi erano state le pronte risposte dei suoi cani, che, innervositi, si erano messi ad abbaiare e ringhiare.
In quelle circostanze il ragazzo aveva avuto il sentore di essere seguito da sinistre creature, invisibili ma abbastanza vicine e le misteriose voci, accompagnate da un forte scalpitio di zoccoli sul terreno pietroso, gli avevano fatto accapponare la pelle dalla paura, la stessa paura che adesso, vedendo la luce del giorno lentamente scemare, di nuovo si presentava e che gli diceva di stare accorto e di fuggire presto da lì: bisognava informare i Cavalieri che quell’altura, come le altre cime, era infestata dalle fate e dalla loro Regina, che da sempre, celata agli occhi del mondo, dimorava in una grande e buia spelonca sotto la vetta di uno di quei monti e che, da ciò che sapeva, era denominata Sibilla… doveva assolutamente avvertire il capo di quei guerrieri che la montagna su cui si trovavano era la montagna delle fate

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Artesia la fata

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Un sospiro pesante si udiva aleggiare nel cavernoso e buio ventre di una di quelle montagne, un respiro antico di un sonno perenne: l’immortale e cinica Signora riposava e nel suo profondo ma attento dormire, con i suoi sensi l’esterno scrutava, mentre le giovani ancelle, in fila una dopo l’altra, ridendo e scherzando fra loro, ansiose di varcare la soglia per uscire fuori sotto le stelle, attendevano che la grande porta di bronzo si aprisse; il sole a breve avrebbe solcato la linea del tramonto e al morire della sua luce le allegre scorribande sarebbero iniziate; quando all’improvviso la voce della Regina, imperiosa, nella spelonca tuonò:

«Intrusi! Uomini armati su queste vette! Chi è che mi sfida e non teme di restare quassù nella notte che sta per venire? Chi mai con lance e spade osa calpestare le mie cime? Artesia, dove sei? Corri da me, ho un compito per te!»

Artesia, l’ancella più fidata, non era con le tante sue simili che con frenesia si accalcavano per emergere dall’oscura dimora; lei, la più anziana fra tutte le giovincelle fate, era rimasta in disparte e nella sua momentanea solitudine si domandava come mai fosse finita in quella grotta e perché mai avesse deciso di farlo: forse non c’era stata scelta: la Maga Alcina, questo il vero nome di colei che governava nell’antro, sottraendola alla cattura degli armigeri di quel tetro Signore che regnava sul feudo di Elcito, le aveva salvato la vita evitandole il rogo e lei, la bella e giovane strega, per questo era riconoscente e serviente.

Dal canto suo, Alcina aveva visto nella seducente e sfortunata incantatrice una valida alleata con grande potenziale e per farvi comprendere il perché di questo connubio è bene che io vi racconti delle peripezie che la suddetta Artesia dovette affrontare per giungere sino alla grotta di quel regno segreto; ma prima, desidero parlarvi un po’ di quella enigmatica figura, la fattucchiera veggente di nome Alcina, che si faceva chiamare Sibilla.

Si narrava, ma leggenda non era, che molti secoli or sono, Alcina, che aveva la facoltà di scrutare il futuro e che non era affatto buona né priva di macchia, ebbe la pretesa di rivolgersi a Dio e di chiedergli, con vanità, di essere lei la futura madre del Cristo: questa rivendicazione fu la sua rovina.

L’Onnipotente, per tanta arroganza e presunzione, decise di punirla, relegandola a trascorrere una vita lunghissima nelle viscere della  terra, lontana dai suoi simili e dalla luce del sole, sino a che, dopo centinaia e centinaia di anni, io, la Morte, l’avrei finalmente colta.

Il vivere nell’oscurità del sottosuolo poteva essere accettato, ma di morire, Alcina non ne aveva affatto voglia ed è qui che il suo destino si incrocia con quello di Artesia; ma per farvi comprendere è bene che io vi racconti brevemente della sfortunata avventura della giovane strega, quindi tralascio per un momento il narrare e a seguire vi spiego il perché di codesta strana alleanza fra la Maga Sibilla e la bella fattucchiera.

Artesia, anche se strega, non era affatto malvagia, era solamente una giovane donna, bella, sola ed emarginata che per via delle sue arti magiche, era stata costretta a scappare dal borgo situato nel castello di Elcito, dove da sempre con i suoi anziani genitori viveva e così, eludendo il processo per stregoneria, lasciatasi alle spalle ogni cosa, tra le quali purtroppo anche il suo amore, era riuscita a sottrarsi dal rogo.

 Dopo essersi allontanata di molto dal villaggio natale, si era rifugiata all’interno del vasto e buio bosco ai confini del feudo e aveva trovato in una caverna, seminascosta tra rocce e cespugli, la sua dimora.

Lì, nell’oscuro e tenebroso antro, aveva incontrato una lupa con i suoi quattro cuccioli che da subito erano diventati suoi amici, condividendo in loro compagnia il cibo e la sua magica e potente pozione: il filtro dell’eterna giovinezza.

Questo elisir che lei, la bella fattucchiera, aveva da tempo elaborato, era stato la causa di tutti i suoi mali, perché bramato dai cuori maligni, avidi e vanitosi.

 Il sinistro Signore di Elcito, informato da una vecchia e viscida megera che la giovane era riuscita a creare una bevanda miracolosa che se bevuta quotidianamente in modeste quantità lo avrebbe preservato giovane e forte, aveva deciso di catturare la ragazza, torturarla per appropriarsi della formula e poi, infine, per far sì che potesse essere il solo a conoscere la ricetta, mandarla sull’ardente patibolo con l’accusa di stregoneria.

La notte antecedente il giorno in cui Artesia doveva essere arrestata dalle guardie del tetro castellano, il Capitano di queste, che da sempre la conosceva e le voleva bene come fosse sua figlia, ebbe di lei compassione: senza essere scorto da occhi indiscreti, prese un cavallo dalle scuderie e lo affidò alla ragazza, dopo averla avvertita che la sua vita era pericolo, per far sì che potesse scappare e dileguarsi celermente, perché al sorgere del sole i gendarmi del suo Signore sarebbero venuti a prelevarla per metterla in catene. 

La bella e leggiadra incantatrice non aveva altra scelta: raccolse molto velocemente le sue cose, abbracciò i genitori e in lacrime, con quel nero destriero chiamato Carbone, di gran fretta fuggì via, lasciando dietro di sé ogni cosa, tra cui il suo amore: un giovane fabbro dai lunghi capelli neri e occhi azzurri come il cielo, che aveva nome Teoforo.

Dopo alcuni giorni di viaggio, senza mai voltarsi indietro, superati fitti boschi e turbinosi torrenti, si trovò davanti quella buia cavità e l’incontro con la lupa e i quattro cuccioli. 

Con la sola presenza di Carbone viveva come un’eremita,  ma in questo suo mondo che ora si era creata, come vi ho già detto, aveva anche trovato nuova compagnia: la canide con i quattro suoi figli che di tanto in tanto, entrando nella spelonca e facendole feste, alleviavano con la loro presenza la mesta solitudine e come fidate e vigili sentinelle sorvegliavano e proteggevano il sonno di lei. 

A nessuno aveva mai venduto il suo filtro, se lo era tenuto solo e sempre per sé, ma da un po’ di tempo ne elargiva anche alla lupa, che chiamava Stella, e ai suoi cuccioli, ai quali aveva dato i nomi di Sole, Cielo, Terra e Mare.

Non molto lontano da quella caverna, al di là del bosco a circa un giorno di viaggio, sopra quel poggio elevato e roccioso, adagiato ai piedi delle bianche montagne, si ergeva il castello del truce Signore, il fortificato palazzo dove al suo interno, ahimè, viveva e lavorava, servendo il tetro e avido sovrano, Teoforo, il suo perduto amore.

Avvenne così che il sinistro feudatario, padrone di Elcito, capì che per catturare la giovane strega avrebbe dovuto usare come esca il ragazzo: dopo aver fatto giustiziare gli ignari e innocenti genitori di Artesia per non aver rivelato il nascondiglio della loro figlia, invitò il giovane Teoforo ad andare alla ricerca della sua amata, con la promessa che se l’avesse trovata non le sarebbe stato fatto alcun male, anzi, se fosse ritornata e avesse collaborato, rivelando la preparazione della magica mistura, avrebbero potuto entrambi vivere nel castello al suo pari… ma il subdolo castellano in cuor suo ben altra mira nutriva. 

Il giovane fabbro la missione accettò e in una presta mattina autunnale partì, scortato da quattro uomini in armi e uno strano cavaliere vestito di nero, alla ricerca della sua amata e alla fine, seguendo traccia su traccia, dopo circa un mese d’incessante ricerca, arrivò alla caverna e lì, innanzi a questa, trovò il destriero Carbone, che ignaro di tutto, tranquillamente la tenera erba brucava.

«Dove sei celata amata mia? Sono io, Teoforo, non nasconderti più, al sicuro ora sei»… ma non era così.

La sorte della povera ragazza sembrava segnata: all’udire il richiamo del suo amore, con il cuore ricolmo di gioia, fuori dalla spelonca si precipitò, ma la sorpresa fu assai amara quando, insieme a Teoforo, scrutò anche i soldati del bieco Signore; così, dopo essere stata catturata, ancora più doloroso fu vedere il suo amato vigliaccamente preso alle spalle e ucciso senza pietà, trapassato da una lama comandata dal braccio di un sudicio e terrificante sicario di scuro vestito, che lei non aveva mai visto al villaggio e che mentre quella scellerata azione compiva, sinistramente compiaciuto ghignava: un forestiero, forse un assassino, probabilmente assoldato perché trucidasse il suo amato Teoforo.

Con gli occhi spalancati su quell’orrenda scena e sul volto tetro del torvo omicida, afferrata ai polsi e alle caviglie per essere legata, Artesia, impotente e disperata, la morte immensamente desiderò: implorandomi di coglierla, più volte mi chiamò, ma io non lo feci, non potevo, non era ancora giunta la sua ora, mentre invece fra le mie braccia presi l’amato, liberando il suo spirito dal misero corpo straziato.

Sembrava tutto finito, la ragazza non era più padrona del suo destino, quando, all’improvviso, Stella la lupa, inferocita, mostrando minacciosa le zanne, dal buio del bosco spuntò e con foga, seguita dai cuccioli, si gettò sul soldato che stava accingendosi a legare la giovane e sfortunata strega. 

Furono attimi concisi di pura lotta tra la belva e l’umano, in cui il grosso canide azzannò al collo il malcapitato armigero sbranandolo, mentre i lupetti, mordendo alle caviglie gli altri soldati vicini, diedero il tempo alla giovane di districarsi e liberarsi dei lacci: un breve balzo, una veloce corsa e Artesia riuscì a saltare in groppa a Carbone, che ancora immobile, se ne stava nei pressi della spelonca… e fu in quel momento che ella sentì una voce parlare alla sua mente: 

«Presto, vai nella foresta! La macchia ti nasconderà, cavalca verso sud, io ti guiderò, corri e non voltarti indietro! Stella cadrà, ma tu dovrai rimanere in vita, perché solo così potrai vendicare la sua morte e quella del tuo povero amato; vai verso le montagne… vieni da me!»

Così, con quelle parole che le tuonavano in testa, Artesia s’introdusse nella fitta selva e senza sapere dove andare e perché, dal galoppo del suo nero destriero si lasciò trasportare, senza guardare indietro, senza più un cuore, senza più lacrime, senza più amore… e mentre come il vento fuggiva, alle sue spalle udì il mesto guaito di Stella la lupa che, trapassata da lama, il mondo dei vivi lasciava.

Dopo due giorni, stanca e affamata, in sella a Carbone, che sembrava conoscere bene la strada, quasi fosse guidato da un cavaliere invisibile e misterioso, arrivò sulla cima di una montagna e lì, proprio sotto la vetta, il cavallo davanti a una grotta si fermò.

«Sei arrivata, ora varca la soglia della caverna… vieni da me!».

E fu così che la bella e seducente strega entrò nella spelonca e da quel presto mattino più ne uscì da umana.

Erano all’incirca passati tre anni da quel fatidico giorno; lì, nel ventre roccioso di quella montagna, lei, Artesia la strega, l’ancella più anziana, era al sicuro; là non sarebbero mai venuti a cercarla né tantomeno avrebbero mai potuto farle del male: una grande alleata aveva con sé; in cambio di quella formula magica, Alcina la Sibilla l’avrebbe protetta da tutto e da tutti… ma il sinistro Signore non si era dato per vinto e aveva continuato la caccia. 

Quel filtro era stato la causa di tutto, quella pozione era la cosa che il maligno sovrano di Elcito bramava e senza sosta cercava, quella magica bevanda era il motivo per cui il tetro feudatario aveva ingaggiato il crudele Capitano di ventura denominato Mostro, che per quella mistura aveva messo a ferro e fuoco castelli e villaggi: l’elisir di lunga vita era la vera cagione del tanto sangue innocente versato ed era, anche da Alcina, di certo assai desiderato.

Ma ormai tutto ciò più non importava alla bella e giovane incantatrice, adesso regnava nel cuore di lei tanta tristezza e solitudine; ora che era un’ancella della Regina Sibilla non le era dato pensare d’amare e di vivere una vecchiaia serena, non poteva, aveva perduto il suo amore, adesso che non era più strega né donna mortale niente sembrava avere significato: ora lei era Artesia la fata.

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