

CARLO GRILLI
la Fata silvana

ISBN 9788835367796
Trama
Sul versante del Monte Conero a ridosso del mare, là negli antichi sentieri dove la selva diventa più fitta ed è assai arduo arrivare, in un bosco dalla neve copiosamente ammantato, si svolge la storia... avviene magia.
Madre Natura, la Fata Suprema, colei che le foreste governa, corre in soccorso della sua ninfa Eva, dal mondo dei maghi denominata Treccia D’Oro: l’amato Decanto è in serio pericolo.
Pirati saraceni, assoldati da un malvagio castellano servo del male, assaltano la costa picena per fare razzie, ma ciò è solo un pretesto, altro è il vero obbiettivo.
Informato dal Gran Consiglio dei Santi Difensori, Arsenio, l’ex Cavaliere Templare che a suo volere si trasforma in lupo mannaro, di tutto questo è a conoscenza.
Egli, affiancato da Fedora, Isidoro e un giovane “mentale” di nome Moravio, si appresta a dare battaglia.

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Nota dell’autore
Che cos’è la fantasia? Come e da dove inizia la creatività? Quale è la molla segreta che visione ti dà e fa poi scattare l’idea e perché questo avviene? Chi ciò non ha mai provato non può capire, così altrettanto è assai difficile spiegare.
In poche righe cercherò di raccontarvi quello che spesso, porgendomi impulso, a volte come un lampo a ciel sereno accade nella mia mente e mi accompagna sul percorso narrativo dandomi estro.
Premesso che “La Fanciulla delle Stelle”, storia in gran parte già scritta, sarà l’ultimo libro della saga, non avendo io ancora intenzione di porre fine alle gesta dei miei personaggi, un poco mi dispiaceva sancire il terminare di queste opere; quindi, per continuare e tenere in vita i miei eroi, dovevo assolutamente cercare nuove idee.
Senza risultato alcuno con il pensiero spaziavo qua e là alla ricerca di spunti per iniziare un altro racconto, ma nonostante mi ci mettessi d’impegno, ahimè, nulla trovavo; quando, salendo da una delle spiagge di Sirolo, per la cronaca quella di San Michele, ho intravisto saltellare sopra un ramo di pino uno scoiattolo nero ed allora mi sono ricordato di un singolare fatto che, con mia profonda gioia, mi è capitato nell’albeggiare di un limpido giorno del mese di giugno dell’anno 2017.
In quel dì, come spesso amo fare, mi trovavo sul Monte Conero e più precisamente sull’inizio della cresta che sale verso quel luogo aspro e pericoloso ma assai panoramico che noi, esperti del sito, chiamiamo Anfiteatro.
In quel meraviglioso punto, da me denominato “Bocca del Lupo”, ubicato sulla cima di una ripida scarpata quasi alla fine del sentiero che sfocia al Passo della Croce e da dove, per gli occhi di chi sale là sopra si apre una stupenda vista su quei magnifici faraglioni detti Le Due Sorelle, emblema del Conero e vanto del mio paese Sirolo, io, in completa solitudine, mi sono ancorato per contemplare.
Me ne stavo lì, aspettavo l’aurora e avevo già iniziato a filmare il sorgere del sole dal mare con il mio cellulare quando, all’improvviso, qualcosa d’insolito è avvenuto: uno scoiattolo nero è apparso da sotto la rupe rocciosa, si è soffermato a cinque passi da me, mi ha guardato per un breve lasso di tempo dopodiché, con un agile balzo, nella selva alla mia destra di colpo si è rintanato.
È stato quello per me un fugace ma stupendo momento: già mi compiacevo per aver immortalato con un video quell’inconsueto incontro quando, dopo pochi minuti, l’esserino è riapparso riemergendo dal bosco ed è rimasto immobile, eretto sulle zampe posteriori per circa una dozzina di secondi.
La creatura, ferma e impassibile, senza timore alcuno se ne stava là e mi scrutava, forse incuriosita dalla mia presenza o forse, e qui mi piace pensarlo, anch’essa voleva ammirare il nascere del grande astro arancione.
Che strana sensazione! Mi sembrava che quella bestiolina di corvino colore avesse qualcosa d’umano, che volesse quasi colloquiare; percepivo di stare con una persona, avevo il sentore di essere in comunione con essa; devo dire che mai ho provato nulla di simile in vita mia: all’esserino mancava solo la parola.
Rammento, dopo averlo perso di vista, dato che nella macchia era ormai sparito, d’aver adagiato lì sul dirupo un biscotto, nella speranza che magari, una volta che io me ne fossi andato via, lo scoiattolo riapparisse per consumare quel dono.
Non so se poi il minuto animale è ritornato, non l’ho più rivisto; tuttavia spesso, quando mi trovo in quel punto, accarezzando il sogno che riemerga e mi conceda ancora una volta la sua compagnia, lascio sempre qualcosa da mangiare.
A distanza di mesi da questo fatto, abbastanza rassegnato, dato che non avevo in testa niente di valido, stavo per abbandonare il progetto di scrivere un altro racconto quando, osservando quello scoiattolo nero saltellare sul ramo di pino, mi sono ricordato di quell’alba del mese di giugno e di ciò che era accaduto; così, come per magia, all’improvviso ho avuto ispirazione, tutto ha preso forma nella mia mente, ogni tassello narrativo è andato al suo posto ed è nata una nuova novella: la storia che state per leggere.
Da lì il vento si è alzato sospingendo le vele della mia fantasia e il navigare ha dunque preso vigore.
Inoltre tengo a precisare che tutti i luoghi del Conero qui descritti, di cui magari mai avete sentito parlare, sono reali e, a parte la Grotta degli Schiavi purtroppo crollata nel 1920, tuttora presenti.
Credetemi, io mi ritengo un fortunato: ho avuto varie volte l’occasione di solcare quei silvani sentieri e di contemplare le tante meraviglie nascoste lì nel verde.
Sovente da ragazzo infatti, insieme ai fidi compagni d’allora, cercando avventura, si andava spesso in esplorazione nel versante del bosco che dava sul mare ed è stato così che ho avuto il grande privilegio di vedere ciò che molti non hanno potuto ammirare e che forse mai sarà possibile fare, dato che al momento, in quella parte della montagna, misteriosa e storicamente molto importante, che digradando s’affaccia sulle acque salmastre, essendo ormai da decenni area protetta, vige un divieto d’accesso dell’Ente Parco del Conero.
Non sta a me decretare se ciò sia giusto o sbagliato, ma al solo pensare che tutte queste arcaiche tracce sono purtroppo interdette il cuore assai mi duole: vorrei là ritornare.
Bellissimo era l’Altare, sentiero che, serpeggiando e digradando ripido, conduceva sino al vecchio e ormai distrutto Pontile dei Lavori ubicato nel Lido dei Gabbiani.
Così com’era unico l’antico Passo del Lupo, punto focale per immettersi in una stupenda stradina immersa nella foresta, che dall’Eremo di San Pietro in vetta comunicava con, l’ormai perduto e ridotto a rovine, Convento di San Benedetto.
Ma tra tutte queste meraviglie spicca in assoluto la Grotta di Valle Ombrosa: ricoperta e celata dalla macchia silvestre dell’omonima forra che dalla minuta Spiaggia dei Forni sale incuneandosi nella fitta boscaglia, essa appare all’improvviso tale a miraggio in tutta la sua misticità, come volesse dirti “Eccomi sono qui, finalmente mi hai trovato”.
È codesto sito, circondato da pareti di roccia irta e bianca, un vero miracolo di madre natura: un luogo ricco di fascino e di magia.
Tutti questi secolari e sconosciuti sentieri a strapiombo sul mare, insieme alla Forra di Valle Ombrosa, vero cuore pulsante del Conero, immersi nella macchia popolata da lecci, corbezzoli e rampicanti spinosi, fanno parte di ciò che era l’eremitica vita dei tanti monaci che negli anni del medioevo con il loro certosino lavoro e la tanta preghiera si sono lì avvicendati.
Quindi, come vi ho precedentemente annunciato, ciò che leggerete in questo libro riguardo ai luoghi corrisponde a realtà; così come è assodata quella che io chiamo Rocca del Signore di Pietra che ho trasfigurato nella stupefacente fortezza di Dubrovnik, posizionata al di là dell’Adriatico sulla costa dalmata.
Con la speranza che questo mio nuovo racconto possa aprire una breccia, rompendo quell’ottuso muro istituzionale che a nessuno permette di solcare quegli arcani percorsi, né di osservare i magnifici panorami che da lì si aprono sulle onde, da voi, detto ciò, mi congedo.
Auspicandomi che il navigare nella mia quinta umile opera sia piacevole e in grado di donarvi momenti di pura evasione, auguro a tutti una buona lettura.
“Venite a me spavaldi venti dell’est! Leggeri soffiate e i capelli di colei che deve assopirsi sciogliete! Zefiro mite, soffio gentile, della foresta culla le fronde e con il tuo sbuffo lambisci nel mare le onde! Perché chi deve il suo dolore lenire possa qui tra le braccia del bosco dormire” …
Il quinto libro de I Santi Difensori, frutto della fantasiosa arte narrativa di Carlo Grilli, mi ha subito trasportato in una galassia ricca di personaggi: delirio e onnipotenza di una mente complessa quanto realistica, ancorata a questa terra più di quanto si potrebbe immaginare.
Non è un caso che l’ambientazione del racconto si cali quasi in punta di piedi in luoghi che, come Valle Ombrosa, stanno al centro del sistema Conero con organismi fossili, vegetali e animali lì in bella evidenza.
Di certo l’isolamento dato dal silenzio, le luci, le ombre e le mezze tinte dei pertugi descritti hanno aiutato e non poco l’autore, sia in fase di gestazione dell’opera che in quella di sviluppo. E qui sta la forza del narratore, dimostrata ampiamente con Le Montagne delle Fate, dove Sibilla e Pizzo del Diavolo sono il fulcro di vicende che vedono protagonista Alcina (la Maga Sibilla) nel mistero e nella magia dei più forti luoghi d’Appennino.
Lo scrittore, come sempre, novellando la mitica lotta tra Bene e Male, ci pervade per mezzo dell’amore o con la malia, in luoghi, i nostri, ricchi di poesia, di colori riflessi da prati lucenti o dall’ambiguità cromatica di oscuri valloni incassati.
Badia San Pietro, Castello di Sirolo, Vallone di Menepento, Convento di Portonovo, Eremo di San Benedetto, Passo del Lupo, Grotta degli Schiavi e Altare chiedono ascolto: sono contrade che hanno visto, “lento pede”, l’incedere di antichi abitanti, l’arrivo di nuove genti, il procedere per romitori di monaci e di santi, borghi che, con il battere del ferro e le lotte violente tra castelli, hanno echeggiato grida d’allarme, e l’opera silente ma duratura di tanti artisti, ricordata pure nel vinile “Ars longa vita brevis”.
I protagonisti, tutti ben descritti, si muovono in questo contesto. Arsenio, Moravio, il malvagio Signore di Pietra, Benda nera, il perfido Vasilio, Eva Treccia d’Oro, Melina, Decanto, lo scoiattolino, Dioneo, il falco, sono solo alcuni dei personaggi incredibili che strutturano il racconto e ci fanno fantasticare ancor più tra mare, cielo, macchia e pietra innevata.
Quasi una lezione di geomorfologia fantastica in cui la natura e l’ambiente sovrastano tutto e tutti, e dove il Bene emerge prorompente in vibranti sensazioni amorose, nei misteriosi voli di un autoctono pennuto o nelle agili mosse di piccole creature.
Determinanti per il felice esito della storia sono, come sempre, i Santi Difensori e l’amore che trionfa sotto diverse spoglie.
Il finale, con sorpresa, lo lascio a quella che sarà sicuramente un’avida, fluida e piacevole lettura. Francesco Burattini
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un breve estratto del Libro V
La Narratrice
Chi sono io ormai vi è noto, ma se qualcun di voi ancor non sa or mi confesso.
L’Eterno mi ha dato nome Nebula, ma l’uomo ciò non conosce, usa chiamarmi in altro modo.
Nera Signora, Mater Tenebrarum oppure, e questo è certo più appropriato, Angelo della Morte o Morte solamente sono io detta e quando pronunciate questa parola, segretamente, tanta paura avete; forse perché, in malo modo, con ossa, teschio e vesti assai stracciate, voi mi raffigurate, ma io non son così... e adesso vi enuncerò.
Austera è la mia persona, il viso è fascinoso, le labbra mie carnose son di colore viola e, di corvina tinta, lunga è la chioma… non c’è creatura al mondo che mi doma.
Di veli scuri sono io abbigliata, alle mie spalle porto due grandi ali nere; esile, alta e femminile è la mia figura; sottili son le braccia, ma vigorose reggono un’argentata falce: con quella colgo vite e dò liberazione.
Ora però di me timore non abbiate, qui non mi mostro per anime pigliare, ma per novellarvi una storia nuova, arcana e ben celata: sarò ancora una volta la vostra narratrice; perciò, per voi, lieta mi presto al raccontare.
Sovente il vento spira in quella terra del suolo italico centrale, quindi quando son là, con vera gioia, io l’afferro al volo e dal suo soffio mi lascio trasportare.
Dall’alto osservo e miro la gente che lì vive e un poco mi sovvien l’invidia, mi viene voglia di sostare e allora giro e poi rigiro sorretta dalle mie oscure ali, ma non per vite prelevare: solo per godimento, per contemplare.
Là sulla costa piatta, quando la rupe dalle spiagge sale rompendo la monotonia del litorale, s’adagia fiera quella città che ha nome Ancona, dai greci edificata, che anche Dorica è chiamata.
Poco più a sud di questa bella urbe, quasi ad afferrar con mano, tanto è vicino, si erge un promontorio ricco di selva e solitario, che quasi come un gomito, facendo angolo e dividendo brezze, sul blu si posa.
Mi è cara assai questa verdognola montagna che, nello sguardo di chi sa guardare e un po’ sognare, ha come forma di balena e che, da remoti tempi, Conero è detta.
Così come mi è ameno l’ammirare il mare su cui essa i piedi poggia; amo contemplare anche, nei giorni luminosi, le sue ciottolose spiagge bianche, gli scogli e le falesie ardite che, simili a titaniche muraglie di difesa, dalle spumose onde si elevano imperiose.
Vi è una varietà di luoghi e di creature in questo sito che voi neanche immaginate, tanto è difficile addentrarsi nel cuore della sua foresta.
Né voi sapete e neanche potete concepire cosa lì accadde in quei remoti giorni, quando, subito dopo aver lasciato le cime sibilline e fatto ritorno alla segreta sede di Santo Spirito, la Capo Guerriero dei Santi Difensori, onde nascondere il prezioso testo e i Sette Pugnali Incantati per occultarli agli occhi del nemico, diede ordine di consegnare questi nelle mani di Arsenio, l’ex Cavaliere Templare, il lupo mannaro, che l’Eremo di San Pietro al Conero, scrigno della Santa Reliquia, con denti e spada proteggeva.
Nella recondita grotta, tra il folto verde del monte sull’Adriatico mare, il sacro e arcaico libro, insieme alle daghe, doveva essere celato, poiché in esso vi era la conoscenza da tramandare ai posteri del come il Maligno uccidere; quella era la chiave di porta per il futuro e quel punto scelto per nascondiglio era molto sicuro, perché dove l’antro della Valle Ombrosa fosse pochi eletti sapevano: la sua ubicazione era un vero mistero… ma il Male di quelle lame magiche e del volume aveva notizia e, anche se della caverna occulta non era a conoscenza, alla battaglia da un po’ si preparava.
Quindi, per farvi comprendere il tutto, è forse bene che io inizi il narrare da quel tempo ormai assai lontano, in cui gli anacoreti monaci di quel sito silvano chiamato Conero, con la preghiera e il duro lavoro, vicini al Creatore e in comunione con Lui, in santa pace vivevano.
Erano quelli giorni di buriana: la tormenta da tramontana sibilando infuriava e, mentre neve cadeva, tra gli sbuffi delle gelide raffiche di vento e il roboante frastuono delle onde che violente s’infrangevano sugli scogli, un lamentoso ululato di lupo lì nel bosco si udiva… era l’anno del Signore 1206.
La Grotta di Valle Ombrosa
Buia era la volta, avara di stelle, scura tale a nero di seppia, ovattata e coperta da nubi che, lente e minacciose, come schiere agguerrite avanzavano.
La luna in cielo non si scorgeva ma ogni tanto la sua timida luce tra le dense nuvole spiragli trovava e un fievole lumeggiare alla terra picena donava, mentre una bava di vento che a poco a poco montava, soffiava e a tratti sbuffava.
Là all’orizzonte, dove l’occhio finiva, saette lontane balenavano nell’aria, eppur del tuono la voce non si sentiva: un fortunale furioso imperava laggiù nelle onde remote e quei continui bagliori che illuminavano la distesa marina, dato che la buriana sovente girava, non facevano presagire niente di buono, però al momento sembrava che nulla accadesse e che una calma apparente governasse l’intorno.
Lassù sull’eremo, in quella rigida nottata invernale, la brezza fredda e pungente che da tramontana spirava e neve annunciava, le pareti di pietra del monastero avvolgeva, mentre ai piedi della montagna, con la sua spinta, le acque turchine dell’Adriatico increspava e, lambendo le piante della foresta a ridosso del mare, le fronde muoveva; così, in quella danza, al dolce frastuono dei flutti il rumore del bosco si univa.
Era ormai notte fonda quando Arsenio, il monaco, l’ex Cavaliere Templare, inginocchiato davanti all’altare maggiore, sotto il fioco chiarore di un cero, aspettava, pregando il Creatore, il giovane armigero dei Santi Difensori con il quale si sarebbe allontanato dal convento per inoltrarsi nella fitta foresta.
Moravio, questo il nome del paladino, recava con sé, sotto la sua custodia, ciò che la Capo Guerriero gli aveva in gran segreto affidato, affinché portasse i preziosi oggetti sino alla Badia di San Pietro al Conero per consegnarli nelle mani di Arsenio; l’ordine che gli era stato dato era chiaro: nascondere il Sacro Libro e i Sette Pugnali Incantati in un luogo celato e sicuro e quella velata grotta, posta nel versante del monte che dava sul mare, era forse il luogo più adatto.
Il ragazzo, un “mentale” dalla folta e lunga chioma nera e gli occhi azzurri, fidato e abile soldato dei Santi Difensori, aveva lasciato le segrete mura di Santo Spirito e dopo due giorni di viaggio era giunto a destinazione, aveva riposato alcune ore e adesso era pronto per portare a termine la sua missione: presto, insieme all’ex Cavaliere Templare, sarebbe sceso sino alla sconosciuta e recondita cavità per seppellire il raro testo e le arcane lame, quegli inderogabili oggetti che per nessun motivo dovevano cadere nelle mani del nemico e che, avvolti entrambi in panni di velluto rosso, erano racchiusi in un piccolo baule d’argento.
«Viaggerai con quattro dei nostri che ti guarderanno le spalle; non li vedrai, loro non cavalcheranno al tuo fianco ma saranno sempre nelle tue vicinanze.
Uno di questi fratelli guerrieri, come te, ha poteri mentali: con lui sempre in contatto tu ti terrai! In modo che, in caso di bisogno, essi possano prontamente intervenire.
Onde evitare di dare nell’occhio sarai vestito con saio; chi là alla meta è in attesa, già sa quando e con cosa tu arriverai; la cassa argentata deve essere occultata nella grotta segreta! Buona fortuna e che Dio sia con te». Queste erano state le ultime parole della Capo Guerriero prima di partire e adesso egli era pronto per portare a termine il suo compito.
Era quell’antro, per la sua posizione, spesso usato dai certosini che vivevano nel convento sito sulla sommità del Monte Conero e da altri otto frati anacoreti che, a poca distanza da questo, abitavano nell’Eremo di San Benedetto, un piccolo monastero immerso nel bosco che comunicava con la Chiesa Romanica di San Pietro per mezzo di uno stretto sentiero denominato Passo del Lupo, così chiamato a causa di un lupo che spesso si faceva notare su quella silvana stradina ed era quella piccola cavità un vero rifugio per nascondersi.
Sovente, infatti, feroci pirati saraceni solevano attaccare la costa, quindi, mentre le genti a valle per sfuggire ai predoni abbandonavano le case sparse nelle campagne rifugiandosi con cibarie e beni all’interno della fortificata rocca di Sirolo, per i frati dei conventi in vetta l’unica soluzione era lasciare i chiostri e rintanarsi nella foresta e quella grotta a strapiombo sul mare, in quel luogo impervio ricco di fitta vegetazione, era un nascondiglio perfetto.
Nessuno laggiù li avrebbe scovati, dato che per raggiungere l’antro l’impresa assai ardua si presentava; vi erano, di fatto, solo due tracce abilmente e volutamente celate dai monaci, tortuose, molto difficili da intravedere e tutto questo per trarre in inganno: l’ignaro che su quei percorsi si cimentava, commetteva poi errore e smarriva la strada.
Il tratto più breve, ma anche molto più impegnativo, iniziava da un punto del sentiero che da sopra i monasteri scendeva e poi confluiva alla Chiesa di Santa Maria, un’altra ecclesiastica dimora, anch’essa servita da una risicata comunità di monaci e ubicata in una baia ai piedi della montagna.
Questo invisibile e ignoto passaggio era situato a circa duecento passi dopo aver sorpassato il Chiostro di San Benedetto; per chi sapeva, ed erano pochi, da lì si doveva deviare nella fitta boscaglia per poi, aggrappandosi ai cespugli e alla roccia, scendere in un ripido canalone: una lunga, malagevole e inaccessibile forra denominata Valle Ombrosa che terminava affacciandosi a strapiombo sopra un piccolo lembo di spiaggia.
Laggiù, quasi alla fine di quella selvaggia gola, dove la luce del sole solo nelle prime ore del mattino a stento arrivava, velata da grandi arbusti rampicanti che ne occludevano la vista, vi era l’arcana caverna.
L’altro modo per raggiungere la cavità era di certo più agevole, ma assai ingarbugliato era il viaggiare: si poteva girare e girare per ore e poi infine al punto di partenza tornare.
La strada che digradava alla Chiesa di Santa Maria era sempre la stessa, solo che, superato il Convento di San Benedetto, da quel punto strategico che vi ho appena enunciato, era necessario ancora avanzare per altri cinquecento passi; dopodiché una traccia appariva sulla destra e lì si doveva proseguire.
Quest’agibile pista per un po’ dolcemente scendeva, la macchia forava e alcune volte, prima a dritta poi a manca, repentina svoltava, sino ad arrivare in un punto che, creando angolo e liberando il guardare per la gioia del cuore, a precipizio sul mare svettava.
Superato quel luogo, il proseguire diventava più arduo e mostrava, ricavati dalla roccia, due grottini con nicchie come fossero altari, ove di solito ci si fermava per fare ammenda e preghiera; dopodiché giù di nuovo si andava solcando scalini di pietra; ma poi, stranamente, quel sentiero riprendeva a salire e di nuovo sulla stradina che dall’alto verso la baia scendeva infine portava: era come il Gioco dell’Oca.
Se si voleva andare alla grotta segreta a un certo punto, là dove si ergeva un grosso e vecchio tronco pendente e in parte adagiato a traverso sul percorso, bisognava abbandonare la via e immergersi nella fitta boscaglia tra rovi e arbusti spinosi che le vesti strappavano; si digradava di molto e poi una labile traccia appariva: trecento passi e alla forra si perveniva… da là, per arrivare alla grotta, che ormai era vicina, in ascesa su un canale sabbioso si andava.
Arsenio sentì dei passi calpestare il selciato del chiostro e capì che il ragazzo, il giovane mentale mandato dalla confraternita, era già pronto, allora interruppe la sua preghiera, si fece il segno della croce e dando le spalle all’altare girandosi verso l’ingresso della chiesa, in piedi si alzò: la porta si schiuse e la sagoma del fresco guerriero si materializzò davanti ai suoi occhi.
«Bene! Vedo che hai tutto l’occorrente con te, possiamo andare… preparati perché non sarà affatto una passeggiata», disse il monaco al cavaliere dandogli una pacca sulla spalla e questi, senza parlare, in risposta sorrise; così entrambi, privi di lanterna, dopo essersi avvolti nei pesanti mantelli, con una lunga fune di canapa, un piccone, una pala e una sacca contenente il prezioso bauletto uscirono dal sacro luogo e, discesa la scalinata, posero il passo in direzione del grande portone per uscire dall’eremo, mentre il cielo, in quel preciso momento, omaggiava di neve il monastero lasciando cadere i primi soffici fiocchi.
L’alba era ancora lontana ed era il giusto momento per percorrere la selva senza essere scorti, però non avrebbero preso il sentiero che vi ho appena descritto e che dai frati usualmente veniva usato perché, astutamente, per non essere notati, Arsenio voleva evitare di passare davanti al Convento di San Benedetto: avrebbero inforcato l’antico Passo del Lupo e poi, lasciando la stradina, lui e Moravio si sarebbero immersi in quel sito boscoso, che tra rocce, arbusti e rovi spinosi giù verso le cale del Conero ripidamente digradava; dopodiché, scavalcato il chiostro, sarebbero ritornati sull’usuale pista e là, appena arrivati a quel fatidico punto, abbandonando l’agibile corso, avrebbero posto il passo su quella inaccessibile via che in breve nella forra li avrebbe incanalati.
La fredda brezza ora si era chetata, le fronde degli alberi non più si muovevano, silenzio e buio donava l’intorno e i due, calpestando il terreno foglioso che si stava ammantando di un soffice bianco, sicuri e spediti verso l’ardito traguardo s’incamminarono: Valle Ombrosa, oscura, gelida e silente, con le sue pareti di roccia li stava aspettando, alle prime luci del mattino al recondito antro sarebbero giunti.
Arsenio conosceva assai bene la traccia che nello scosceso fossato portava e ben sapeva come incedere su quel difficile tratto ai più sconosciuto; egli era conscio che era molto insidioso attraversarlo di notte, ma era imperativo non farsi notare. Questo perché lui non si fidava dei monaci che presidiavano l’Eremo di San Benedetto, erano strani e schivi, specialmente uno di loro che da poco si era unito alla congrega, il più giovane: non gli piaceva affatto, più volte lo aveva notato muoversi furtivo nella boscaglia adiacente alla Badia di San Pietro… quel frate dalla folta barba rossiccia aveva uno strano comportamento.
«Ora rimaniamo in silenzio! Se devi dirmi qualcosa fallo sottovoce», disse l’ex Cavaliere Templare a Moravio e questi senza parlare annuì; così in quella nottata, calpestando il sottile strato nevoso che si era appena formato, i due, con le bocche cucite, proseguirono sul silvano Passo del Lupo lasciandosi alle spalle le alte mura del chiostro.
Arrivato che fu nei pressi del piccolo convento, prima di scorgere il romitorio, Arsenio, seguito dal giovane, deviò dalla stradina digradando in direzione del mare e lì, nella fitta boscaglia spinosa che lacerava le vesti, usando i suoi acuti poteri allungò l’osservare e l’udire e si rese subito conto che non erano stati intravisti: nessuno era sveglio in quel minuto monastero nascosto nella foresta, tutto era cheto e silente, potevano proseguire tranquilli, sicuri che occhi indiscreti non stavano spiando; ora bisognava affrettarsi e scendere alla gola prima che l’aurora giungesse.
Là, all’interno della selva, la brezza leggera che neve spalmava non più adesso spirava, fiocchi lievi, ondulando, cadevano al suolo in quella macchia di lecci e di rovi, mentre lontano, all’orizzonte, ancora saette scintillavano sopra il mare: nelle terre della costa remota il fortunale imperava e quelle folgori a tratti rischiaravano il cielo come fari distanti a indicare la via; Valle Ombrosa era lì sotto, era vicina, lo si percepiva dall’aria che più umida e rigida alle narici di Arsenio e Moravio si presentava.
Declinando procedevano i due paladini e sempre più ripido era il terreno, sino a quando la selva mostrò agli acuti occhi dell’ex Cavaliere Templare l’inizio del dirupo con le sue rocciose pareti, così egli, rivolto al compagno, esclamò:
«Ecco, siamo giunti alla forra, dammi la fune!»
Il giovanotto non perse tempo, passò quella cima di canapa nelle mani dell’anziano guerriero che, con maestria, l’ancorò intorno al tronco di un leccio; poi, dato che con l’avanzare dell’alba il buio lentamente svaniva e adesso anche egli riusciva a vedere assai bene, rapito dalla bellezza del luogo amplificata dal candido manto, al suo forzuto compare parlò:
«Non credevo vi fosse tanta maestosità in questo bosco… è magnifico!», «Sì», rispose prontamente Arsenio, dopodiché, anche lui ammirando quell’ambiente incantato, il suo pensiero sul magico sito al ragazzo enunciò:
«Valle Ombrosa da sempre è così: una perla della natura, segreta, inaccessibile ai più, abilmente nascosta nel ventre di questa montagna; anche a me, nonostante non sia la prima volta che a lei mi presento, dona emozioni.
«Passami il piccone e la pala, li prendo io che scendo per primo e conosco bene questo passaggio, poi vieni giù tu; mi raccomando fai molta attenzione perché la roccia è assai umida e scivolosa, ancora qualche minuto e saremo arrivati alla meta».
Così Moravio si tolse dalle sue spalle quegli arnesi da scavo e li diede all’ex Cavaliere Templare che se li pose a tracolla dopodiché, afferrando saldamente la corda, Arsenio con precauzione iniziò a calarsi, mentre la neve dolcemente continuava a cadere e, filtrando quei soffici fiocchi, la luce del nuovo mattino, timidamente, incedeva.
Appena l’ex Cavaliere Templare toccò il terreno giù in fondo, con un cenno fece capire al Santo Difensore che ora poteva emularlo; il giovane non perse tempo e si cimentò in quella breve discesa su fune e poco dopo raggiuse l’anziano ma ancora valente paladino che, quasi contento, conscio di fare al ragazzo una bella sorpresa, sorridente gli disse:
«Guarda, contempla! Poni lo sguardo in alto a sinistra: eccola là!».
Sorrise Moravio voltando la testa, sorrise inebriato e poi, tale a bambino che gioioso mira magia, meravigliato esclamò:
«Che bella, è maestosa! Ti sono grato e debitore, oh Grande Guerriero Protettore! Grazie per avermi condotto sin qui! Non trovo parole per definire così tanta beltà: questo recondito luogo ricoperto di fiocchi mi tocca il cuore… sprigiona malie e all’anima infonde tepore!»
La tempesta, là dove il mare finiva, come d’incanto adesso era cessata, il grande astro arancione, ancora nascosto al creato, si accingeva a conquistare la scena, dalle acque, colorando la volta di viola, la sua luce donava: la neve caduta era tanta, immacolato era il sentiero e gelata la roccia che dall’alto a strapiombo scendeva e in quel candido ma aspro sito il silenzio, come sempre, sovrano regnava.
«Siamo arrivati alla meta, adesso saliamo alla grotta», disse Arsenio al compagno che, ancora rapito, la cavità nel latteo spettacolo, circondata e semicoperta dai rampicanti, estasiato ammirava.
Poi il giovanotto si riprese da quel felice vagare di mente, lasciò la lunga fune di canapa e anche lui, accodandosi al compare, iniziò la breve ascesa per varcare la soglia della spelonca… mentre il sole, tra i resti delle nuvole oscure che il vento spazzava e disperdeva, là all’orizzonte dal mare sorgeva e i primi bagliori dell’aurora, penetrando la fitta boscaglia innevata, timidamente irradiavano quel luogo celato agli occhi del mondo, lumeggiando le bianche e solitarie pareti della segreta e magnifica Grotta di Valle Ombrosa.
la Fata silvana

ISBN 9788835367796
Trama
Sul versante del Monte Conero a ridosso del mare, là negli antichi sentieri dove la selva diventa più fitta ed è assai arduo arrivare, in un bosco dalla neve copiosamente ammantato, si svolge la storia... avviene magia.
Madre Natura, la Fata Suprema, colei che le foreste governa, corre in soccorso della sua ninfa Eva, dal mondo dei maghi denominata Treccia D’Oro: l’amato Decanto è in serio pericolo.
Pirati saraceni, assoldati da un malvagio castellano servo del male, assaltano la costa picena per fare razzie, ma ciò è solo un pretesto, altro è il vero obbiettivo.
Informato dal Gran Consiglio dei Santi Difensori, Arsenio, l’ex Cavaliere Templare che a suo volere si trasforma in lupo mannaro, di tutto questo è a conoscenza.
Egli, affiancato da Fedora, Isidoro e un giovane “mentale” di nome Moravio, si appresta a dare battaglia.

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Nota dell’autore
Che cos’è la fantasia? Come e da dove inizia la creatività? Quale è la molla segreta che visione ti dà e fa poi scattare l’idea e perché questo avviene? Chi ciò non ha mai provato non può capire, così altrettanto è assai difficile spiegare.
In poche righe cercherò di raccontarvi quello che spesso, porgendomi impulso, a volte come un lampo a ciel sereno accade nella mia mente e mi accompagna sul percorso narrativo dandomi estro.
Premesso che “La Fanciulla delle Stelle”, storia in gran parte già scritta, sarà l’ultimo libro della saga, non avendo io ancora intenzione di porre fine alle gesta dei miei personaggi, un poco mi dispiaceva sancire il terminare di queste opere; quindi, per continuare e tenere in vita i miei eroi, dovevo assolutamente cercare nuove idee.
Senza risultato alcuno con il pensiero spaziavo qua e là alla ricerca di spunti per iniziare un altro racconto, ma nonostante mi ci mettessi d’impegno, ahimè, nulla trovavo; quando, salendo da una delle spiagge di Sirolo, per la cronaca quella di San Michele, ho intravisto saltellare sopra un ramo di pino uno scoiattolo nero ed allora mi sono ricordato di un singolare fatto che, con mia profonda gioia, mi è capitato nell’albeggiare di un limpido giorno del mese di giugno dell’anno 2017.
In quel dì, come spesso amo fare, mi trovavo sul Monte Conero e più precisamente sull’inizio della cresta che sale verso quel luogo aspro e pericoloso ma assai panoramico che noi, esperti del sito, chiamiamo Anfiteatro.
In quel meraviglioso punto, da me denominato “Bocca del Lupo”, ubicato sulla cima di una ripida scarpata quasi alla fine del sentiero che sfocia al Passo della Croce e da dove, per gli occhi di chi sale là sopra si apre una stupenda vista su quei magnifici faraglioni detti Le Due Sorelle, emblema del Conero e vanto del mio paese Sirolo, io, in completa solitudine, mi sono ancorato per contemplare.
Me ne stavo lì, aspettavo l’aurora e avevo già iniziato a filmare il sorgere del sole dal mare con il mio cellulare quando, all’improvviso, qualcosa d’insolito è avvenuto: uno scoiattolo nero è apparso da sotto la rupe rocciosa, si è soffermato a cinque passi da me, mi ha guardato per un breve lasso di tempo dopodiché, con un agile balzo, nella selva alla mia destra di colpo si è rintanato.
È stato quello per me un fugace ma stupendo momento: già mi compiacevo per aver immortalato con un video quell’inconsueto incontro quando, dopo pochi minuti, l’esserino è riapparso riemergendo dal bosco ed è rimasto immobile, eretto sulle zampe posteriori per circa una dozzina di secondi.
La creatura, ferma e impassibile, senza timore alcuno se ne stava là e mi scrutava, forse incuriosita dalla mia presenza o forse, e qui mi piace pensarlo, anch’essa voleva ammirare il nascere del grande astro arancione.
Che strana sensazione! Mi sembrava che quella bestiolina di corvino colore avesse qualcosa d’umano, che volesse quasi colloquiare; percepivo di stare con una persona, avevo il sentore di essere in comunione con essa; devo dire che mai ho provato nulla di simile in vita mia: all’esserino mancava solo la parola.
Rammento, dopo averlo perso di vista, dato che nella macchia era ormai sparito, d’aver adagiato lì sul dirupo un biscotto, nella speranza che magari, una volta che io me ne fossi andato via, lo scoiattolo riapparisse per consumare quel dono.
Non so se poi il minuto animale è ritornato, non l’ho più rivisto; tuttavia spesso, quando mi trovo in quel punto, accarezzando il sogno che riemerga e mi conceda ancora una volta la sua compagnia, lascio sempre qualcosa da mangiare.
A distanza di mesi da questo fatto, abbastanza rassegnato, dato che non avevo in testa niente di valido, stavo per abbandonare il progetto di scrivere un altro racconto quando, osservando quello scoiattolo nero saltellare sul ramo di pino, mi sono ricordato di quell’alba del mese di giugno e di ciò che era accaduto; così, come per magia, all’improvviso ho avuto ispirazione, tutto ha preso forma nella mia mente, ogni tassello narrativo è andato al suo posto ed è nata una nuova novella: la storia che state per leggere.
Da lì il vento si è alzato sospingendo le vele della mia fantasia e il navigare ha dunque preso vigore.
Inoltre tengo a precisare che tutti i luoghi del Conero qui descritti, di cui magari mai avete sentito parlare, sono reali e, a parte la Grotta degli Schiavi purtroppo crollata nel 1920, tuttora presenti.
Credetemi, io mi ritengo un fortunato: ho avuto varie volte l’occasione di solcare quei silvani sentieri e di contemplare le tante meraviglie nascoste lì nel verde.
Sovente da ragazzo infatti, insieme ai fidi compagni d’allora, cercando avventura, si andava spesso in esplorazione nel versante del bosco che dava sul mare ed è stato così che ho avuto il grande privilegio di vedere ciò che molti non hanno potuto ammirare e che forse mai sarà possibile fare, dato che al momento, in quella parte della montagna, misteriosa e storicamente molto importante, che digradando s’affaccia sulle acque salmastre, essendo ormai da decenni area protetta, vige un divieto d’accesso dell’Ente Parco del Conero.
Non sta a me decretare se ciò sia giusto o sbagliato, ma al solo pensare che tutte queste arcaiche tracce sono purtroppo interdette il cuore assai mi duole: vorrei là ritornare.
Bellissimo era l’Altare, sentiero che, serpeggiando e digradando ripido, conduceva sino al vecchio e ormai distrutto Pontile dei Lavori ubicato nel Lido dei Gabbiani.
Così com’era unico l’antico Passo del Lupo, punto focale per immettersi in una stupenda stradina immersa nella foresta, che dall’Eremo di San Pietro in vetta comunicava con, l’ormai perduto e ridotto a rovine, Convento di San Benedetto.
Ma tra tutte queste meraviglie spicca in assoluto la Grotta di Valle Ombrosa: ricoperta e celata dalla macchia silvestre dell’omonima forra che dalla minuta Spiaggia dei Forni sale incuneandosi nella fitta boscaglia, essa appare all’improvviso tale a miraggio in tutta la sua misticità, come volesse dirti “Eccomi sono qui, finalmente mi hai trovato”.
È codesto sito, circondato da pareti di roccia irta e bianca, un vero miracolo di madre natura: un luogo ricco di fascino e di magia.
Tutti questi secolari e sconosciuti sentieri a strapiombo sul mare, insieme alla Forra di Valle Ombrosa, vero cuore pulsante del Conero, immersi nella macchia popolata da lecci, corbezzoli e rampicanti spinosi, fanno parte di ciò che era l’eremitica vita dei tanti monaci che negli anni del medioevo con il loro certosino lavoro e la tanta preghiera si sono lì avvicendati.
Quindi, come vi ho precedentemente annunciato, ciò che leggerete in questo libro riguardo ai luoghi corrisponde a realtà; così come è assodata quella che io chiamo Rocca del Signore di Pietra che ho trasfigurato nella stupefacente fortezza di Dubrovnik, posizionata al di là dell’Adriatico sulla costa dalmata.
Con la speranza che questo mio nuovo racconto possa aprire una breccia, rompendo quell’ottuso muro istituzionale che a nessuno permette di solcare quegli arcani percorsi, né di osservare i magnifici panorami che da lì si aprono sulle onde, da voi, detto ciò, mi congedo.
Auspicandomi che il navigare nella mia quinta umile opera sia piacevole e in grado di donarvi momenti di pura evasione, auguro a tutti una buona lettura.
“Venite a me spavaldi venti dell’est! Leggeri soffiate e i capelli di colei che deve assopirsi sciogliete! Zefiro mite, soffio gentile, della foresta culla le fronde e con il tuo sbuffo lambisci nel mare le onde! Perché chi deve il suo dolore lenire possa qui tra le braccia del bosco dormire” …
Il quinto libro de I Santi Difensori, frutto della fantasiosa arte narrativa di Carlo Grilli, mi ha subito trasportato in una galassia ricca di personaggi: delirio e onnipotenza di una mente complessa quanto realistica, ancorata a questa terra più di quanto si potrebbe immaginare.
Non è un caso che l’ambientazione del racconto si cali quasi in punta di piedi in luoghi che, come Valle Ombrosa, stanno al centro del sistema Conero con organismi fossili, vegetali e animali lì in bella evidenza.
Di certo l’isolamento dato dal silenzio, le luci, le ombre e le mezze tinte dei pertugi descritti hanno aiutato e non poco l’autore, sia in fase di gestazione dell’opera che in quella di sviluppo. E qui sta la forza del narratore, dimostrata ampiamente con Le Montagne delle Fate, dove Sibilla e Pizzo del Diavolo sono il fulcro di vicende che vedono protagonista Alcina (la Maga Sibilla) nel mistero e nella magia dei più forti luoghi d’Appennino.
Lo scrittore, come sempre, novellando la mitica lotta tra Bene e Male, ci pervade per mezzo dell’amore o con la malia, in luoghi, i nostri, ricchi di poesia, di colori riflessi da prati lucenti o dall’ambiguità cromatica di oscuri valloni incassati.
Badia San Pietro, Castello di Sirolo, Vallone di Menepento, Convento di Portonovo, Eremo di San Benedetto, Passo del Lupo, Grotta degli Schiavi e Altare chiedono ascolto: sono contrade che hanno visto, “lento pede”, l’incedere di antichi abitanti, l’arrivo di nuove genti, il procedere per romitori di monaci e di santi, borghi che, con il battere del ferro e le lotte violente tra castelli, hanno echeggiato grida d’allarme, e l’opera silente ma duratura di tanti artisti, ricordata pure nel vinile “Ars longa vita brevis”.
I protagonisti, tutti ben descritti, si muovono in questo contesto. Arsenio, Moravio, il malvagio Signore di Pietra, Benda nera, il perfido Vasilio, Eva Treccia d’Oro, Melina, Decanto, lo scoiattolino, Dioneo, il falco, sono solo alcuni dei personaggi incredibili che strutturano il racconto e ci fanno fantasticare ancor più tra mare, cielo, macchia e pietra innevata.
Quasi una lezione di geomorfologia fantastica in cui la natura e l’ambiente sovrastano tutto e tutti, e dove il Bene emerge prorompente in vibranti sensazioni amorose, nei misteriosi voli di un autoctono pennuto o nelle agili mosse di piccole creature.
Determinanti per il felice esito della storia sono, come sempre, i Santi Difensori e l’amore che trionfa sotto diverse spoglie.
Il finale, con sorpresa, lo lascio a quella che sarà sicuramente un’avida, fluida e piacevole lettura. Francesco Burattini
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un breve estratto del Libro V
La Narratrice
Chi sono io ormai vi è noto, ma se qualcun di voi ancor non sa or mi confesso.
L’Eterno mi ha dato nome Nebula, ma l’uomo ciò non conosce, usa chiamarmi in altro modo.
Nera Signora, Mater Tenebrarum oppure, e questo è certo più appropriato, Angelo della Morte o Morte solamente sono io detta e quando pronunciate questa parola, segretamente, tanta paura avete; forse perché, in malo modo, con ossa, teschio e vesti assai stracciate, voi mi raffigurate, ma io non son così... e adesso vi enuncerò.
Austera è la mia persona, il viso è fascinoso, le labbra mie carnose son di colore viola e, di corvina tinta, lunga è la chioma… non c’è creatura al mondo che mi doma.
Di veli scuri sono io abbigliata, alle mie spalle porto due grandi ali nere; esile, alta e femminile è la mia figura; sottili son le braccia, ma vigorose reggono un’argentata falce: con quella colgo vite e dò liberazione.
Ora però di me timore non abbiate, qui non mi mostro per anime pigliare, ma per novellarvi una storia nuova, arcana e ben celata: sarò ancora una volta la vostra narratrice; perciò, per voi, lieta mi presto al raccontare.
Sovente il vento spira in quella terra del suolo italico centrale, quindi quando son là, con vera gioia, io l’afferro al volo e dal suo soffio mi lascio trasportare.
Dall’alto osservo e miro la gente che lì vive e un poco mi sovvien l’invidia, mi viene voglia di sostare e allora giro e poi rigiro sorretta dalle mie oscure ali, ma non per vite prelevare: solo per godimento, per contemplare.
Là sulla costa piatta, quando la rupe dalle spiagge sale rompendo la monotonia del litorale, s’adagia fiera quella città che ha nome Ancona, dai greci edificata, che anche Dorica è chiamata.
Poco più a sud di questa bella urbe, quasi ad afferrar con mano, tanto è vicino, si erge un promontorio ricco di selva e solitario, che quasi come un gomito, facendo angolo e dividendo brezze, sul blu si posa.
Mi è cara assai questa verdognola montagna che, nello sguardo di chi sa guardare e un po’ sognare, ha come forma di balena e che, da remoti tempi, Conero è detta.
Così come mi è ameno l’ammirare il mare su cui essa i piedi poggia; amo contemplare anche, nei giorni luminosi, le sue ciottolose spiagge bianche, gli scogli e le falesie ardite che, simili a titaniche muraglie di difesa, dalle spumose onde si elevano imperiose.
Vi è una varietà di luoghi e di creature in questo sito che voi neanche immaginate, tanto è difficile addentrarsi nel cuore della sua foresta.
Né voi sapete e neanche potete concepire cosa lì accadde in quei remoti giorni, quando, subito dopo aver lasciato le cime sibilline e fatto ritorno alla segreta sede di Santo Spirito, la Capo Guerriero dei Santi Difensori, onde nascondere il prezioso testo e i Sette Pugnali Incantati per occultarli agli occhi del nemico, diede ordine di consegnare questi nelle mani di Arsenio, l’ex Cavaliere Templare, il lupo mannaro, che l’Eremo di San Pietro al Conero, scrigno della Santa Reliquia, con denti e spada proteggeva.
Nella recondita grotta, tra il folto verde del monte sull’Adriatico mare, il sacro e arcaico libro, insieme alle daghe, doveva essere celato, poiché in esso vi era la conoscenza da tramandare ai posteri del come il Maligno uccidere; quella era la chiave di porta per il futuro e quel punto scelto per nascondiglio era molto sicuro, perché dove l’antro della Valle Ombrosa fosse pochi eletti sapevano: la sua ubicazione era un vero mistero… ma il Male di quelle lame magiche e del volume aveva notizia e, anche se della caverna occulta non era a conoscenza, alla battaglia da un po’ si preparava.
Quindi, per farvi comprendere il tutto, è forse bene che io inizi il narrare da quel tempo ormai assai lontano, in cui gli anacoreti monaci di quel sito silvano chiamato Conero, con la preghiera e il duro lavoro, vicini al Creatore e in comunione con Lui, in santa pace vivevano.
Erano quelli giorni di buriana: la tormenta da tramontana sibilando infuriava e, mentre neve cadeva, tra gli sbuffi delle gelide raffiche di vento e il roboante frastuono delle onde che violente s’infrangevano sugli scogli, un lamentoso ululato di lupo lì nel bosco si udiva… era l’anno del Signore 1206.
La Grotta di Valle Ombrosa
Buia era la volta, avara di stelle, scura tale a nero di seppia, ovattata e coperta da nubi che, lente e minacciose, come schiere agguerrite avanzavano.
La luna in cielo non si scorgeva ma ogni tanto la sua timida luce tra le dense nuvole spiragli trovava e un fievole lumeggiare alla terra picena donava, mentre una bava di vento che a poco a poco montava, soffiava e a tratti sbuffava.
Là all’orizzonte, dove l’occhio finiva, saette lontane balenavano nell’aria, eppur del tuono la voce non si sentiva: un fortunale furioso imperava laggiù nelle onde remote e quei continui bagliori che illuminavano la distesa marina, dato che la buriana sovente girava, non facevano presagire niente di buono, però al momento sembrava che nulla accadesse e che una calma apparente governasse l’intorno.
Lassù sull’eremo, in quella rigida nottata invernale, la brezza fredda e pungente che da tramontana spirava e neve annunciava, le pareti di pietra del monastero avvolgeva, mentre ai piedi della montagna, con la sua spinta, le acque turchine dell’Adriatico increspava e, lambendo le piante della foresta a ridosso del mare, le fronde muoveva; così, in quella danza, al dolce frastuono dei flutti il rumore del bosco si univa.
Era ormai notte fonda quando Arsenio, il monaco, l’ex Cavaliere Templare, inginocchiato davanti all’altare maggiore, sotto il fioco chiarore di un cero, aspettava, pregando il Creatore, il giovane armigero dei Santi Difensori con il quale si sarebbe allontanato dal convento per inoltrarsi nella fitta foresta.
Moravio, questo il nome del paladino, recava con sé, sotto la sua custodia, ciò che la Capo Guerriero gli aveva in gran segreto affidato, affinché portasse i preziosi oggetti sino alla Badia di San Pietro al Conero per consegnarli nelle mani di Arsenio; l’ordine che gli era stato dato era chiaro: nascondere il Sacro Libro e i Sette Pugnali Incantati in un luogo celato e sicuro e quella velata grotta, posta nel versante del monte che dava sul mare, era forse il luogo più adatto.
Il ragazzo, un “mentale” dalla folta e lunga chioma nera e gli occhi azzurri, fidato e abile soldato dei Santi Difensori, aveva lasciato le segrete mura di Santo Spirito e dopo due giorni di viaggio era giunto a destinazione, aveva riposato alcune ore e adesso era pronto per portare a termine la sua missione: presto, insieme all’ex Cavaliere Templare, sarebbe sceso sino alla sconosciuta e recondita cavità per seppellire il raro testo e le arcane lame, quegli inderogabili oggetti che per nessun motivo dovevano cadere nelle mani del nemico e che, avvolti entrambi in panni di velluto rosso, erano racchiusi in un piccolo baule d’argento.
«Viaggerai con quattro dei nostri che ti guarderanno le spalle; non li vedrai, loro non cavalcheranno al tuo fianco ma saranno sempre nelle tue vicinanze.
Uno di questi fratelli guerrieri, come te, ha poteri mentali: con lui sempre in contatto tu ti terrai! In modo che, in caso di bisogno, essi possano prontamente intervenire.
Onde evitare di dare nell’occhio sarai vestito con saio; chi là alla meta è in attesa, già sa quando e con cosa tu arriverai; la cassa argentata deve essere occultata nella grotta segreta! Buona fortuna e che Dio sia con te». Queste erano state le ultime parole della Capo Guerriero prima di partire e adesso egli era pronto per portare a termine il suo compito.
Era quell’antro, per la sua posizione, spesso usato dai certosini che vivevano nel convento sito sulla sommità del Monte Conero e da altri otto frati anacoreti che, a poca distanza da questo, abitavano nell’Eremo di San Benedetto, un piccolo monastero immerso nel bosco che comunicava con la Chiesa Romanica di San Pietro per mezzo di uno stretto sentiero denominato Passo del Lupo, così chiamato a causa di un lupo che spesso si faceva notare su quella silvana stradina ed era quella piccola cavità un vero rifugio per nascondersi.
Sovente, infatti, feroci pirati saraceni solevano attaccare la costa, quindi, mentre le genti a valle per sfuggire ai predoni abbandonavano le case sparse nelle campagne rifugiandosi con cibarie e beni all’interno della fortificata rocca di Sirolo, per i frati dei conventi in vetta l’unica soluzione era lasciare i chiostri e rintanarsi nella foresta e quella grotta a strapiombo sul mare, in quel luogo impervio ricco di fitta vegetazione, era un nascondiglio perfetto.
Nessuno laggiù li avrebbe scovati, dato che per raggiungere l’antro l’impresa assai ardua si presentava; vi erano, di fatto, solo due tracce abilmente e volutamente celate dai monaci, tortuose, molto difficili da intravedere e tutto questo per trarre in inganno: l’ignaro che su quei percorsi si cimentava, commetteva poi errore e smarriva la strada.
Il tratto più breve, ma anche molto più impegnativo, iniziava da un punto del sentiero che da sopra i monasteri scendeva e poi confluiva alla Chiesa di Santa Maria, un’altra ecclesiastica dimora, anch’essa servita da una risicata comunità di monaci e ubicata in una baia ai piedi della montagna.
Questo invisibile e ignoto passaggio era situato a circa duecento passi dopo aver sorpassato il Chiostro di San Benedetto; per chi sapeva, ed erano pochi, da lì si doveva deviare nella fitta boscaglia per poi, aggrappandosi ai cespugli e alla roccia, scendere in un ripido canalone: una lunga, malagevole e inaccessibile forra denominata Valle Ombrosa che terminava affacciandosi a strapiombo sopra un piccolo lembo di spiaggia.
Laggiù, quasi alla fine di quella selvaggia gola, dove la luce del sole solo nelle prime ore del mattino a stento arrivava, velata da grandi arbusti rampicanti che ne occludevano la vista, vi era l’arcana caverna.
L’altro modo per raggiungere la cavità era di certo più agevole, ma assai ingarbugliato era il viaggiare: si poteva girare e girare per ore e poi infine al punto di partenza tornare.
La strada che digradava alla Chiesa di Santa Maria era sempre la stessa, solo che, superato il Convento di San Benedetto, da quel punto strategico che vi ho appena enunciato, era necessario ancora avanzare per altri cinquecento passi; dopodiché una traccia appariva sulla destra e lì si doveva proseguire.
Quest’agibile pista per un po’ dolcemente scendeva, la macchia forava e alcune volte, prima a dritta poi a manca, repentina svoltava, sino ad arrivare in un punto che, creando angolo e liberando il guardare per la gioia del cuore, a precipizio sul mare svettava.
Superato quel luogo, il proseguire diventava più arduo e mostrava, ricavati dalla roccia, due grottini con nicchie come fossero altari, ove di solito ci si fermava per fare ammenda e preghiera; dopodiché giù di nuovo si andava solcando scalini di pietra; ma poi, stranamente, quel sentiero riprendeva a salire e di nuovo sulla stradina che dall’alto verso la baia scendeva infine portava: era come il Gioco dell’Oca.
Se si voleva andare alla grotta segreta a un certo punto, là dove si ergeva un grosso e vecchio tronco pendente e in parte adagiato a traverso sul percorso, bisognava abbandonare la via e immergersi nella fitta boscaglia tra rovi e arbusti spinosi che le vesti strappavano; si digradava di molto e poi una labile traccia appariva: trecento passi e alla forra si perveniva… da là, per arrivare alla grotta, che ormai era vicina, in ascesa su un canale sabbioso si andava.
Arsenio sentì dei passi calpestare il selciato del chiostro e capì che il ragazzo, il giovane mentale mandato dalla confraternita, era già pronto, allora interruppe la sua preghiera, si fece il segno della croce e dando le spalle all’altare girandosi verso l’ingresso della chiesa, in piedi si alzò: la porta si schiuse e la sagoma del fresco guerriero si materializzò davanti ai suoi occhi.
«Bene! Vedo che hai tutto l’occorrente con te, possiamo andare… preparati perché non sarà affatto una passeggiata», disse il monaco al cavaliere dandogli una pacca sulla spalla e questi, senza parlare, in risposta sorrise; così entrambi, privi di lanterna, dopo essersi avvolti nei pesanti mantelli, con una lunga fune di canapa, un piccone, una pala e una sacca contenente il prezioso bauletto uscirono dal sacro luogo e, discesa la scalinata, posero il passo in direzione del grande portone per uscire dall’eremo, mentre il cielo, in quel preciso momento, omaggiava di neve il monastero lasciando cadere i primi soffici fiocchi.
L’alba era ancora lontana ed era il giusto momento per percorrere la selva senza essere scorti, però non avrebbero preso il sentiero che vi ho appena descritto e che dai frati usualmente veniva usato perché, astutamente, per non essere notati, Arsenio voleva evitare di passare davanti al Convento di San Benedetto: avrebbero inforcato l’antico Passo del Lupo e poi, lasciando la stradina, lui e Moravio si sarebbero immersi in quel sito boscoso, che tra rocce, arbusti e rovi spinosi giù verso le cale del Conero ripidamente digradava; dopodiché, scavalcato il chiostro, sarebbero ritornati sull’usuale pista e là, appena arrivati a quel fatidico punto, abbandonando l’agibile corso, avrebbero posto il passo su quella inaccessibile via che in breve nella forra li avrebbe incanalati.
La fredda brezza ora si era chetata, le fronde degli alberi non più si muovevano, silenzio e buio donava l’intorno e i due, calpestando il terreno foglioso che si stava ammantando di un soffice bianco, sicuri e spediti verso l’ardito traguardo s’incamminarono: Valle Ombrosa, oscura, gelida e silente, con le sue pareti di roccia li stava aspettando, alle prime luci del mattino al recondito antro sarebbero giunti.
Arsenio conosceva assai bene la traccia che nello scosceso fossato portava e ben sapeva come incedere su quel difficile tratto ai più sconosciuto; egli era conscio che era molto insidioso attraversarlo di notte, ma era imperativo non farsi notare. Questo perché lui non si fidava dei monaci che presidiavano l’Eremo di San Benedetto, erano strani e schivi, specialmente uno di loro che da poco si era unito alla congrega, il più giovane: non gli piaceva affatto, più volte lo aveva notato muoversi furtivo nella boscaglia adiacente alla Badia di San Pietro… quel frate dalla folta barba rossiccia aveva uno strano comportamento.
«Ora rimaniamo in silenzio! Se devi dirmi qualcosa fallo sottovoce», disse l’ex Cavaliere Templare a Moravio e questi senza parlare annuì; così in quella nottata, calpestando il sottile strato nevoso che si era appena formato, i due, con le bocche cucite, proseguirono sul silvano Passo del Lupo lasciandosi alle spalle le alte mura del chiostro.
Arrivato che fu nei pressi del piccolo convento, prima di scorgere il romitorio, Arsenio, seguito dal giovane, deviò dalla stradina digradando in direzione del mare e lì, nella fitta boscaglia spinosa che lacerava le vesti, usando i suoi acuti poteri allungò l’osservare e l’udire e si rese subito conto che non erano stati intravisti: nessuno era sveglio in quel minuto monastero nascosto nella foresta, tutto era cheto e silente, potevano proseguire tranquilli, sicuri che occhi indiscreti non stavano spiando; ora bisognava affrettarsi e scendere alla gola prima che l’aurora giungesse.
Là, all’interno della selva, la brezza leggera che neve spalmava non più adesso spirava, fiocchi lievi, ondulando, cadevano al suolo in quella macchia di lecci e di rovi, mentre lontano, all’orizzonte, ancora saette scintillavano sopra il mare: nelle terre della costa remota il fortunale imperava e quelle folgori a tratti rischiaravano il cielo come fari distanti a indicare la via; Valle Ombrosa era lì sotto, era vicina, lo si percepiva dall’aria che più umida e rigida alle narici di Arsenio e Moravio si presentava.
Declinando procedevano i due paladini e sempre più ripido era il terreno, sino a quando la selva mostrò agli acuti occhi dell’ex Cavaliere Templare l’inizio del dirupo con le sue rocciose pareti, così egli, rivolto al compagno, esclamò:
«Ecco, siamo giunti alla forra, dammi la fune!»
Il giovanotto non perse tempo, passò quella cima di canapa nelle mani dell’anziano guerriero che, con maestria, l’ancorò intorno al tronco di un leccio; poi, dato che con l’avanzare dell’alba il buio lentamente svaniva e adesso anche egli riusciva a vedere assai bene, rapito dalla bellezza del luogo amplificata dal candido manto, al suo forzuto compare parlò:
«Non credevo vi fosse tanta maestosità in questo bosco… è magnifico!», «Sì», rispose prontamente Arsenio, dopodiché, anche lui ammirando quell’ambiente incantato, il suo pensiero sul magico sito al ragazzo enunciò:
«Valle Ombrosa da sempre è così: una perla della natura, segreta, inaccessibile ai più, abilmente nascosta nel ventre di questa montagna; anche a me, nonostante non sia la prima volta che a lei mi presento, dona emozioni.
«Passami il piccone e la pala, li prendo io che scendo per primo e conosco bene questo passaggio, poi vieni giù tu; mi raccomando fai molta attenzione perché la roccia è assai umida e scivolosa, ancora qualche minuto e saremo arrivati alla meta».
Così Moravio si tolse dalle sue spalle quegli arnesi da scavo e li diede all’ex Cavaliere Templare che se li pose a tracolla dopodiché, afferrando saldamente la corda, Arsenio con precauzione iniziò a calarsi, mentre la neve dolcemente continuava a cadere e, filtrando quei soffici fiocchi, la luce del nuovo mattino, timidamente, incedeva.
Appena l’ex Cavaliere Templare toccò il terreno giù in fondo, con un cenno fece capire al Santo Difensore che ora poteva emularlo; il giovane non perse tempo e si cimentò in quella breve discesa su fune e poco dopo raggiuse l’anziano ma ancora valente paladino che, quasi contento, conscio di fare al ragazzo una bella sorpresa, sorridente gli disse:
«Guarda, contempla! Poni lo sguardo in alto a sinistra: eccola là!».
Sorrise Moravio voltando la testa, sorrise inebriato e poi, tale a bambino che gioioso mira magia, meravigliato esclamò:
«Che bella, è maestosa! Ti sono grato e debitore, oh Grande Guerriero Protettore! Grazie per avermi condotto sin qui! Non trovo parole per definire così tanta beltà: questo recondito luogo ricoperto di fiocchi mi tocca il cuore… sprigiona malie e all’anima infonde tepore!»
La tempesta, là dove il mare finiva, come d’incanto adesso era cessata, il grande astro arancione, ancora nascosto al creato, si accingeva a conquistare la scena, dalle acque, colorando la volta di viola, la sua luce donava: la neve caduta era tanta, immacolato era il sentiero e gelata la roccia che dall’alto a strapiombo scendeva e in quel candido ma aspro sito il silenzio, come sempre, sovrano regnava.
«Siamo arrivati alla meta, adesso saliamo alla grotta», disse Arsenio al compagno che, ancora rapito, la cavità nel latteo spettacolo, circondata e semicoperta dai rampicanti, estasiato ammirava.
Poi il giovanotto si riprese da quel felice vagare di mente, lasciò la lunga fune di canapa e anche lui, accodandosi al compare, iniziò la breve ascesa per varcare la soglia della spelonca… mentre il sole, tra i resti delle nuvole oscure che il vento spazzava e disperdeva, là all’orizzonte dal mare sorgeva e i primi bagliori dell’aurora, penetrando la fitta boscaglia innevata, timidamente irradiavano quel luogo celato agli occhi del mondo, lumeggiando le bianche e solitarie pareti della segreta e magnifica Grotta di Valle Ombrosa.